Agropoli nell'antichità non aveva una buona reputazione oltre i propri confini, così come i suoi abitanti. Anni di dominazione saracena (la città fu conquistata nell'882 e rimase in loro dominio fino al 915 quando tornò in mano ai vescovi di Capaccio), avevano influito negativamente sul carattere della popolazione (non a caso si narra che San Francesco fu cacciato nel 1222 dai cittadini incattiviti dopo anni di dominazione araba). Questa è la ragione per cui in diversi passi della letteratura, soprattutto medievale, si consiglia di evitare la città e i suoi abitanti.
Emblematico è quanto racconta Arthur John Stutt. Nel 1841 l'autore inglese intraprese un viaggio a piedi verso il sud dell'Italia in compagnia dell'amico William Jackson, partendo da Porta San Giovanni il 30 aprile e giungendo a Palermo il 15 dicembre, dopo aver attraversato la Campania e la Calabria. Le sue osservazioni furono raccolte in un libro, "A pedestrian tour in Calabria & Sicily" (Un viaggio a piedi in Calabria e in Sicilia) che ebbe un notevole successo soprattutto nei paesi anglosassoni e che è considerato ancor oggi un documento molto importante per comprendere la società del Regno delle Due Sicilie nel periodo pre-unitario. Proprio in questo suo diario di viaggio, dopo aver raccontato le emozioni vissute a Paestum, ai piedi del tempio di Nettuno, l'autore consiglia vivamente ai suoi lettori per giungere a Castellabate di seguire la via per le colline, attraversando Ogliastro Cilento, evitando quindi Agropoli:
“Dopo aver continuato su questa strada per circa 6 miglia, troviamo un sentiero che ci ha porta sul fianco di una collina e da lì verso il mare, dopo cinque o sei miglia, a raggiungere a piedi un villaggio chiamato Agropoli, in piedi su una roccia a strapiombo sul mare, e al comando di una più magnifica vista sulla vasta baia di Salerno. I suoi abitanti sono di origine saracena, e non godono di una buona reputazione tra i loro vicini. Si prosegue quindi lungo una mulattiera”.
La cattiva reputazione dei cittadini “agropolitani” è confermata anche dall'autore Vittorio Imbriani (Napoli, 27 ottobre 1840 – Pomigliano d'Arco, 1º gennaio 1886) che nella sua novella “Per questo ebbi a farmi turco”, narra della “malvagità” proprio di un agropolese:
“C'era una volta, forse dugent'anni fa, in Napoli, fra gli altri, un mascalzonaccio di zoccolante, il quale, de' peccati mortali ne avea...Quanti sono in tutto? Sette? Ebbene, a non vi dir bugia, n'avea nove o dieci quel mascalzonacci lì: ne avea trovato di nuovi. Fu di Agropoli, stamberga cilentana, celebre pe' fichi secchi; ma il più gramo fico secco e verminoso dei campi agropolitani valeva certo, assai più di quel tanghero. Bimbo, fu monello, adolescente, scavezzacollo; giovane, discolo […] Da sette anni cominciò le sue birocconate; a tredici già dava noia alle femmine, e se qualcuno non istimò pericoloso lo scherzare con quel caramogio, credendo la bocca gli puzzasse ancora di latte, l'ebbe ad accorgersi, presto, ch'egli aveva messi i denti; e che dentacci! Zanne addirittura. Gli anni elementari, ginnasiali e liceali, li assolvé tutti andando a zonzo o sdraiato per le taverne. Così crebbe di bene in meglio e non si perpetrava reato, delitto o misfatto ad Agropoli nel quale egli non avesse almeno parte. Finché nel giorno di un anno, sciarratosi con altri pendagli da forza, ebbe a consegnare una di quelle coltellate per le quali è inutile scomodare il cerusico. I parenti della vittima, non avendolo potuto lapidar vivo lì per lì lo volevano vederlo dar calci al rovaio. Ma l'omicida pensò di ricoverarsi in un convento, vestì l'abito di San Francesco e prese il nome di Frate Stefano. Lo mandarono in non so quale chiostro di Napoli: e la città grande gli offrì maggior campo per le sue opere bieche.Non tutti i frati erano stinchi di santi: ma un diavolo dincarnato di quella fatta lì non ci s'era mai visto nell'ordine […] Un pomeriggio d'estate, mentre egli faceva, come suol dirsi, la contr'ora, russando da bestia dopo aver iscuffiato da lupo, gli apparve, in sogno, una mirabile visione. Gli pareva che il Crocifisso sull'altare, ove solea celebrar la messa, strabuzzasse gli occhi e socchiudesse le labbra e sprigionasse, dalla chiostra dei denti, queste parole: “Stephane, quid fai tibi? Cum semper blasphemas me?” E gli parve di rispondere così in sogno: “O bella! Sai tutto e me lo domandi?”[...] E il crocifisso sorridendo a replicargli: “Veramente hai ragione […]”Domani nel cavare il calice dal tabernacolo, guarda bene, vi troverai sotto un polizzino. Piglialo. Vi leggerrai cinque numeri. Giuocali! Usciranno senza fallo!”. […] 17, 23, 7, 29, 68: non uno de' cinque numeri giocati da frate Stefano, uno che fosse uscito. L'Agropolitano guardava sempre fisso l'estrazione come smemorato. Poi si riscosse e cavandosi dalle maniche e dal petto gli scontrini delle giucate, li stracciò. […] Si avviò, quindi, a precipizio verso Mandracchio. V'era ancorata una galea barbaresca. Frate Stefano spiccò dentro un salto. E , spogliandosi e lacerando la cocolla e calpestando la corona, dichiarò a que' circassi di rinnegar Cristo. E que' ghiottoni sel circoncisero lì per lì, in quel dì; e gli imposero nome Alì; ed in un batter d'occhio, mutata la tonaca in brachesse ed il cappuccio in turbante, eccoci il zoccolante italiano trasformato in un pirata algerino. Ebbene, ho a dirla Signori? Se frate Stefano d'Agropoli era stato il pessimo de' zoccolanti, Alì riuscì degli ottimi pirata. […] Ahimè, cosa bella mortale passa e non dura! […] Quel Signore, per le preghiere ed i lamenti di tutte le vittime, il cui sangue, le cui lagrime gridavan vendetta, fece incappar l'Agropolitano col suo brigantino, fra due galee di Malta, assai più possenti. La nebbia gli aveva impedito di scorgerle: ed, invano, tentò di sfuggir loro […] Gli fu forza accettar la battaglia. L'esito non poteva esserne dubbio: né i prodigi di valor dello strenuo Alì, tentando l'arrembaggio della maggior galea, potevan compensare la disparità di forze. Mortalmente ferito, egli vide ammainare la mezzaluna. […] Terminata la pugna, quando ci fu tempo, si pensò anche a' feriti. Il chirurgo dei Maltesi venne ad Alì: ma per accorgersi che non era in poter suo né di alcuno di salvarlo: troppe e tropo gravi le ferite. […] Ed allora un cappellano avvicinandosi al rinnegato, che giaceva sulla tolta col capo appoggiato ad una trave; e cercò di salvargli almen, l'anima, per quanto possibile. Alì, duro e torvo, non gli dava retta, non piegava l'animo feroce. […] Ed il buon cappellano a toccare un'altra corda: avea laccuoli e gran dovizia. "Pensasse a' genitori, pensasse alla mamma sua, cui tanti strazi avea inflitti, che stava facendo morir di crepacuore!" […] A questo pensiero della madre, il moribondo Alì, visibilmente si commosse […] Il cappellano, a vederlo intenerito, al vedergli gemere una lacrima dall'occhio socchiuso, gongolà tutto, pensando: “Il colpo è fatto! Che lustro mi darà questa conversione! […] E per approfittare del buon mercato, dato di piglio ad un Crocifisso, proseguì: “E non è la tua sola madre terrena, non il tuo solo padre corporale, che, per mia bocca, ti esortano e scongiurano di abominare gli errori tuoi, di tornare alla religone vera. Il tuo padre celeste, anch'egli, e con più zelo ancora, ti desidera e ti fa ressa”. Alle quali parole, cupamente ululanti, del sacerdote, il moribondo Alì riapere gli occhi torbidi; e li girò sui marinai che avevano fatto cerchio attorno a lui, e li fissò poi nel Crocifisso, che il cappellano gli apprerssava alle labbra; e, respingendolo, sdegnoso, con un ultimo sforzo, che lo spossò, disse: “A che mi tormenti? Hai sbagliato retorica! Per questo Cristo ebbi a farmi turco!” Ed il capo suo, ricadendo sul tavolato del brigantino, fece toch! Era morto! Ed il povero cappellano vide svanir la speranza concepita di salvare quell'anima, e di ottenere un vescovado di diecimila scudi!.
Gli esempi riportati rappresentano soltanto una parte della letteratura italiana e straniera che fa riferimento ad Agropoli. In molti altri testi la città viene esaltata per le sue bellezze dei suoi paesaggi e per la bontà d'animo dei suoi abitanti. Basta leggere i testi di Franco Antonicelli o di Giuseppe Ungaretti. Quest'ultimo così descriveva la città nel 1932: “… E che cos’è quell’alta rupe che ci appare lastricata fino in cima da campicelli come da un’elegante geometria? E perchè l’erba, quasi azzurra su quella rupe, trascolorisce irrequieta, come da un sottopelle di tatuaggio a una scorticatura smaltata? Ne vedrò più tardi l’altra anca, nuda e scabra: è la Punta d’Agropoli…”