Michele Di Lieto, il giudice-scrittore che ha scelto il Cilento come patria di adozione, non cessa di stupire: a settantanni finiti torna in libreria con un nuovo romanzo (Demian Edizioni, pagg. 180, Teramo 2011) dal titolo doppio, dalla copertina ambigua e dalla sostanza viva: segno di una vena nientaffatto esaurita. Seguiamolo da vicino. Un correttore di bozze part-time, alle prese con lultimo romanzo della casa editrice, mette a confronto la propria vita con quella del protagonista. Luna fatta di donne e di sesso, baciata dalla fortuna; laltra senza donne e senza sesso, segnata dalla sorte, costellata di malattie.
Due storie agli antipodi, una lopposto dellaltra: donde il titolo: Gioco di opposti. Un libro nel libro, con una serie di date e di dati, una miriade di personaggi, giochi di fantasia, risvolti imprevisti: con finale a sorpresa, che ricorda il migliore Maurensig. Un libro denso, corposo, di lettura sempre agevole, che tocca tematiche attuali, e costringe a riflettere e a pensare: sulla vita e sulla morte, sul potere e sul danaro, sulla donna, sul sesso, sulla solitudine, sulla malattia. A proposito della quale lAutore rivela conoscenze e padronanza di linguaggio impensate, come se fosse un medico a scrivere (e medico è il protagonista), anche se la materia è trattata, come sempre, con notevole inventiva e graffiante ironia. Il tutto inserito in uno stile moderno, vivace, spigliato, fatto di scatti e accelerazioni improvvise, di notevole forza descrittiva. Il romanzo, dalla veste curata, nitida, senza sbavature, è in vendita ad Agropoli nelle migliori librerie (a Salerno, da Guida).
Per gentile concessione dellEditore, pubblichiamo qui di seguito
alcuni capitoli del libro:
uno
Nel buio della navata, interrotto qua e là da filtri di luce e vetrate istoriate, a mala pena si distinguevano i colori. La bara in acero bianco, il prete coi paramenti viola, il primo addetto bardato di nero, il labaro rosso dellopera pia. In prima fila, i parenti più stretti. Almeno quelli che Lorenzo, che aveva organizzato il tutto, era riuscito a trovare nelle varie parti della penisola. Cera la figlia di primo letto, abbandonata dal padre quando era ancora bambina, e che niente sapeva del morto se non il fatto di essergli figlia. Perito agronomo (la figlia). Cerano due dei tre figli di secondo letto, il primo ingegnere, il secondo avvocato e il terzo procacciatore di affari. Il primo a Milano, il secondo a Treviso, il terzo a Ferrara. Erano presenti lingegnere e lavvocato: del procacciatore sera persa traccia. Così come sera persa traccia della figlia di terzo letto, da tempo emigrata in uno degli States, forse lo Jowa, o forse lOklahoma, era comunque uno degli States. Cera infine Lorenzo, nato tra il primo e il secondo letto, ma fuori dal letto coniugale, Lorenzo era figlio naturale, erede esecutore designato. Non cera, naturalmente, la moglie di primo letto, e non cera, naturalmente, la moglie del secondo (sempre letto), entrambe passate a miglior vita. E non cera neppure la moglie di terzo letto, da tempo divorziata (con nuova famiglia). Non cera la madre di Lorenzo, nubile quando era nato, poi sposata con tre figli. Niente fiori, niente corone (volontà del morto). Niente folla, niente comizi, niente clamore degli ultimi anni di vita (volontà dei figli). Il rito fu breve. Austero. Come a lui sarebbe piaciuto. La messa piana, in lingua italiana. Tranne il dies irae. Al prete piacque dirlo in latino. Con lenfasi giusta. E tono crescente di voce, dallinizio alla fine. Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla. Quantus tremor est futurus, quando judex est venturus, cuncta stricte discussurus. Poi si addolcì (la voce) e si sciolse in preghiera. Preces meae non sunt dignae, sed tu, bonus, fac benigne, ne perenni cremer igne. Si sciolsero pure le note della fuga in la minore non so che numero di Brahms, eseguita con valentia dallorganista dellopera pia, diplomato in non so che accademia fiorentina. Lomelia fu stringata. Come se il prete avesse ritegno a parlare di un uomo che si era tolto la vita. Venanzio Parenti era morto suicida. Ma il prete disse che non si poteva escludere si fosse pentito. Come avesse fatto a pentirsi dopo essersi sparato un colpo alla tempia (tempia, non avambraccio sinistro) è cosa da chiedere al prete, non a me che scrivo (ma in queste cose, e solo in queste, la Chiesa si è evoluta). Al cenno stabilito, Lorenzo salì sullambone per recitare un carme di Owen (ne aveva fatto richiesta). Ma il carme, appena incominciato, venne interrotto dal rintocco della campana a morto, messa in moto dal congegno a tempo. La messa volse alla fine. La bara fu adagiata sul carro. Lorenzo e gli altri salirono in macchina, ciascuno la sua. Quella di Lorenzo era un maggiolino Wolkswagen che avrebbe fatto la felicità di un collezionista. Il corteo attraversò le vie della città congeste dal traffico. Arrivò al cimitero. Quando la bara fu calata nella fossa Lorenzo tentò di riprendere là dove laveva lasciato il carme di Owen, ma ne fu dissuaso. Gli altri lo trattennero con lo sguardo supplice. Piantata la croce in ferro, col numero segnato sul cartone, il prete rinnovò il requiem aeternam, sempiternam disse e si allontanò alla svelta (non prima che Lorenzo, con mossa discreta, gli facesse scivolare nella tasca lobolo duso). Anche gli altri fecero per allontanarsi. Lorenzo disse che avrebbe mandato a ciascuno copia del testamento. Ciascuno si impegnò a cercare per suo conto il procacciatore e la sorella emigrata. Si salutarono. Lorenzo salì in macchina, chiuse la portiera del maggiolino, abbassò il finestrino, sfrecciò via. Giunto al corso Mazzini, là donde il corteo era partito, sentì il bisogno di tornare a casa. La casa del morto. Fermò la macchina, ne discese e si avviò verso il palazzo condominiale. Portava il numero civico 100. Lo colpì la targa dottone annerito posta alla destra dellingresso, proprio sopra il numero civico: Venanzio Parenti, medico chirurgo, ginecologo. Bisogna rimuoverla, disse fra sé, e si infilò nellascensore. Quando aprì la porta dingresso, la casa gli apparve spoglia. Afona. Senza rumore. Erano passate poco più di trentasei ore. Convulse. Agitate. Il cadavere del padre. Il cervello spappolato. La Browning HP estratta dalla collezione. Il biglietto del suicida. E poi il magistrato, il medico legale, il tramestio di piedi del poliziotto in armi. Tutto gli tornò alla mente come serie di scene di un film mai girato. Lorenzo si chiese: perché ti sei ammazzato. Settantasei anni, solo ma sano, Lorenzo tornò a chiedersi: perché ti sei ammazzato.
due
Perché ti sei ammazzato. Promette bene, mi piace. Mi piace pure questo latino. Ne perenni cremer igne. E chi non conosce il latino. Si fotte. O va su Google e trova il dies irae in italiano. Mi piace infine lo stile: conciso, essenziale, originale la parentesi, non ha uguali. Così Osvaldo Magoni diceva tra sé, soddisfatto (perché poi soddisfatto), dopo aver letto la prima pagina del romanzo in bozze. Lultimo della collana narratori piccoli e grandi della Pay. Non capitava spesso che Osvaldo Magoni si fermasse sulla lingua e sullo stile dei libri che leggeva. Che facesse, come si dice, la critica del testo. Lavesse fatta, non avrebbe rispettato i tempi: e quello, il rispetto dei tempi, era lunico obbligo previsto dal contratto. La Pay book esigeva il rispetto dei tempi. Da tutti. Dipendenti o quasi. Permanenti e occasionali. Lettori, analisti, copisti, traduttori, correttori di bozze. Osvaldo Magoni era, appunto, un correttore di bozze. Intendiamoci. Non che facesse da sempre il correttore. Prima, da giovane, era stato professore al Pighi. Poi, era passato al Settembrini. Trentanni al Settembrini. E sempre italiano e latino. Solo di recente sera messo a correggere bozze. Da che, privo di un arto, amputato per non so che complicanza di non so che morbo (lultimo della serie), più non usciva di casa, mal tollerando (un fatto di testa) larto artificiale e la stampella. Così, aveva accettato di fare il correttore di bozze, ottanta centesimi a cartella. Gli davano la possibilità di incrementare la pensione e di tirare avanti dignitosamente. Osvaldo Magoni era celibe, non sposato. So che celibe vuol dire: non sposato, ma dire: celibe non sposato rafforza il concetto. E Osvaldo Magoni al matrimonio non ci aveva mai pensato. Diceva: non ne ho avuto il tempo. O si era tratto indietro precipitosamente. Certo, Osvaldo Magoni non era mai stato bello. Con quel collo di giraffa, e una spalla più alta dellaltra che pareva (laspetto) un fantoccio tirato coi fili al teatro dei pupi. E però non era lultimo dei brutti. Avesse fiatato, una donna lavrebbe trovata. E una donna gli ci sarebbe voluta, per compagnia, oltre ai piatti e ai servizi di cucina. Ma per quelli cera il filippino. Esempio tipico dellessere servile. Dolce, svelto, tutto a puntino, anche se affetto da leggera zoppia. Allarto sinistro. Pare che lo sfrego (allarto sinistro) glielo avesse procurato un calcio allo stinco dellantico padrone (filippino: non sono tutti servi), geloso della moglie e della figlia. Pare che da allora servisse solo single, senza moglie e senza figlie. Così due ore al giorno, non un minuto in più non un minuto in meno, tutti i giorni tranne la domenica e i festivi, tre euro allora e qualche regalia, veniva il filippino. Per i piatti e i servizi di cucina. Ben vero che la casa di Osvaldo Magoni era grossa, enorme per un single. Sala, salone, camera, cucina, doppi servizi, comodo ingresso e ripostiglio. Non laveva scelta lui, ma così gli era stata assegnata, essendo lultimo prenotatario della Settembrini. Sempre un affare, si sa, col prezzo diluito, e altre comodità della cooperativa. Ma grossa per un single. Così, da quando cera entrato, aveva chiuso a chiave sala, salone e doppio servizio. Gli erano rimasti, oltre al cesso, camera e cucina. Erano anni che si trascinava (negli ultimi tempi in senso non più figurato) dalla camera al cesso e dal cesso in cucina. Che non era propriamente un cucinino. Due vani in uno, tre per quattro per due, che fanno ventiquattro, e mi scuso se è tanto per una cucina attrezzata. Ventiquattro metri quadrati. Mi soffermo sullarredo. So che a nessuno interessa larredo di cucina di Osvaldo Magoni, ma mi soffermo lo stesso. Non fossaltro perché larredo può aiutare a capire il personaggio, e larredo di cucina di Osvaldo Magoni era singolare. A parte langolo cottura, che non può mancare, somigliava (la cucina) a una galleria. Ventitré quadri appesi alle pareti, uno, non finito, ancora montato su cavalletto nellangolo più in vista. Raffigurava, il non finito, un mezzobusto stilizzato col collo da giraffa e una spalla più alta dellaltra che pareva (il ritratto) un fantoccio tirato coi fili al teatro dei pupi. Quadri tutti, finiti e non finito, ereditati dal padre, ai suoi tempi pittore futurista, seguace e imitatore di Boccioni e Balla. Completava larredo un tavolo ovale, in legno di noce chiaro, ereditato dalla madre, che ai suoi tempi vi aveva educato intere generazioni, essendo maestra elementare con lhobby o la necessità di lezioni private. Sì, forse erano i quadri, forse era il tavolo ovale, forse era il ricordo di padre e madre sempre vivo, che attiravano Osvaldo Magoni lì in cucina. Lì si svolgeva la sua vita. Lì, in cucina, veniva di prima mattina e restava fino a sera inoltrata. Con lo stesso maglione girocollo verde dinverno e destate. Lì, in cucina, accanto ai fornelli, preparava da mangiare. Lì, in cucina, accanto al tavolo ovale, correggeva bozze per la Casa. Ed eccolo lì, in cucina, con lultimo romanzo appena arrivato. Ne perenni cremer igne. Igne o igni. Ferro ignique. Igni cremari. Mah. Latino curiale. Stile conciso, essenziale. Lultimo romanzo della Pay era un romanzo speciale.
Venti
Tre (o sei: a seconda dei punti di vista) erano i soggetti di spicco a Montebilotto. Il sindaco (e la signora, che non si chiamava ancora first lady). Il prete (e la signora, che non aveva funzioni di perpetua). Lostetrica (e il marito, che contava più di lei). Non parlo volutamente del quarto: il pretore (già che cera pure la Pretura) che si esibiva in fugaci apparizioni nel paese, di regola a fine mese, per riscuotere lo stipendio il 27, ed era conosciuto non tanto per ragioni di ufficio, quanto per le sue passeggiate a cavallo lungo i dirupi della costa. Pretore, e concludo, senza signora, lasciata a Brunico, dove laveva conosciuta e sposata qualche anno prima, per separarsene qualche anno dopo, con piacere e soddisfazione reciproca. E passo a parlare dei primi tre, o dei primi sei, non tutti assieme, uno per volta. Il sindaco. Avvocato delle cause perse, quelle che vinceva in Pretura le perdeva in Tribunale, azzeccagarbugli prestato alla politica, ultimo della schiatta dei Tosatto, acerrimi nemici dei Servadio, aveva tratto vantaggio dallimprovvisa scomparsa del rivale (morto, chi non ricordi, dinfarto nel corso di un comizio) per vincere le elezioni per sedici voti e insediarsi al Comune dal quale nessuno lo avrebbe più mosso. La signora. Brutta, decisamente brutta, ma ricca (proprietaria terriera: vino in Puglia e grano in Lucania), aveva fatto la fortuna del marito, assumendo le funzioni di spin doctor (ma allora non si diceva così) nel corso della prima campagna elettorale, quella vinta dal marito per sedici voti, facendo il giro delle case (molte) e dei casolari (tutti), per distribuire farina della tenuta non so quale di non so quale grano tenero di propria produzione. Dato comune al sindaco e alla signora: erano obesi. Obeso lui, 95 chilogrammi per 1,64 di altezza, obesa lei che, dopo la prima maternità, si era fatta ingorda. Secondo dato comune, ma strettamente collegato al primo: erano diabetici. Diabetica lei, ma con giudizio. Diabetico lui, ma senza pudore: al punto tale che, quelle rare volte che si esibiva in tribunale, perdeva il filo del discorso e, quelle rare volte che veniva in giunta, cadeva in sonno profondo. Passiamo al secondo. Il prete. Don Remigio. Era un belluomo. Alto, imponente. Con una voce da tribuno che metteva in campo in prossimità delle elezioni quando lomelia diventava anatema, contro i comunisti e chi gli somigliava. Don Remigio. Non era quel che si dice un pastore danime. A parte la politica, gli piacevano le donne e il vino. Quanto alle prime, era voce corrente che fosse padre di non so quanti figli, nati da relazioni con vedove bianche che aveva cura di ingravidare uno o due giorni prima che tornasse il marito, dalla Francia, dal Belgio o dal Regno Unito. A parte queste, che potremmo definire relazioni carnali, don Remigio aveva una relazione più propriamente spirituale. Con quella che la gente chiamava affettuosamente la signora del prete. Vedova di guerra (il marito era morto dopo l8 settembre mentre tentava di attraversare la linea gotica), senza figli (il matrimonio, celebrato per procura, non era stato consumato), aveva da subito conosciuto don Remigio che, proveniente dal nord, la linea gotica laveva felicemente attraversata. Ne fu attratta. Non solo fisicamente (don Remigio era un belluomo), ma nello spirito, il prete rappresentando pur sempre quei valori di fede nei quali la signora aveva cercato rifugio dopo la morte del marito. Di qui una relazione ibrida, oscura ai più, ma tenuta alla luce del sole (la signora frequentava abitualmente la casa del prete, il prete frequentava abitualmente la signora), nella quale non era chiaramente definito quale fosse laspetto di fede, quale fosse laspetto di amore. In conclusione: nessuno sapeva fin dove arrivasse il compito di coordinatrice (direttrice della schola cantorum, suonava lorgano, faceva catechismo, lavava stole), dove invece si estendesse il sesso. Alla fine, la gente se ne era fatta una ragione. Ed ebbe rispetto per la signora. La chiamò, come se fosse cosa del tutto naturale, la signora del prete, e questo appellativo la signora si portò appresso con orgoglio, senza pregiudizio. Passiamo alla terza. Lostetrica. E piuttosto che allostetrica, che non aveva altra benemerenza se non quella di avere fatto nascere, dal momento che era arrivata a Montebilotto, duecento quarantotto bambini, al marito, Egidio, lEgidio Ciardi che, non avendo arte né parte, faceva di mestiere il marito dellostetrica. Uomo altero, dispotico, autoritario, aveva la politica nel sangue. Missino, segretario di sezione del partito (pochi ma impavidi i nostalgici di Mussolini), aveva tentato a suo tempo di inserirsi nella lotta tra i Tosatto e i Servadio, partecipando alle elezioni del 54 (un fiasco: centosei voti). Ma, a parte la politica, che aveva il merito di sottrarlo al tran tran della vita quotidiana, lEgidio Ciardi seguiva da vicino lattività della moglie, accompagnandola a piedi e in macchina (la cinquecento), distribuendo consigli che parevano ordini, prestando alloccorrenza assistenza al parto. Fu così che Venanzio Parenti venne a contatto col marito dellostetrica. Al primo parto incerto, chiamato al capezzale della donna, Venanzio Parenti, avendo dato prova di perizia e di coraggio, si ebbe i complimenti dellostetrica e del marito. Si accorse subito, Venanzio Parenti, che non era un fatto di cortesia. Lo invitarono a cena la sera successiva.
trentotto
Il matrimonio con Cinzia (inteso il matrimonio come felicità di corpi e non solo quella) durò poco più di un anno. Il tempo di mettere al mondo Irene e pochi spiccioli. Poi, scoppiarono le grane. Determinate dalla convivenza necessitata di Cinzia coi figli di Elvira. Che, nonostante il matrimonio celebrato dal prete e trascritto allo stato civile, continuavano a trattarla come unintrusa. E se pure non usavano epiteti irripetibili come le prime volte chera venuta, la trattavano con distacco, evitavano di rivolgerle la parola e, quando non cera, la indicavano col pronome. Quella. Spregiativo. Le cose peggiorarono con la nascita di Irene, che Charles Louis, Ramon e Josep Maria guardarono con gelosia sempre crescente, fino a che non la guardarono affatto, isolandosi e isolandola come la peste. Ora, che la nuova arrivata non fosse accolta con simpatia dai figli di Elvira appariva del tutto naturale. Quella bambina, sulla quale si riversavano le attenzioni di Venanzio e di Cinzia, toglieva loro, così pareva, una parte dellaffetto (per quanto nascosto o inespresso) del padre, ed acuiva il senso di mancanza della madre, essendo evidente che, se non fosse morta Elvira, non ci sarebbe stato posto per laltra. Parlo di Irene, ma anche di Cinzia. Si aggiunga a questo che nell83, alla nascita di Irene, Charles Louis aveva diciottanni, e gli altri lo seguivano a ruota. Che non erano pertanto ragazzini. Il che rendeva ancor più complicato il rapporto con Cinzia. Comè comprensibile. Incomprensibile invece era latteggiamento della colf. Che, nonostante le raccomandazioni di Venanzio e le mance continue, non riusciva a reprimere la sua antipatia verso la nuova padrona di casa, donde sgarbi, dispetti, soprusi, dimenticanze volute, fiducia tradita, riservatezza violata. Il tutto accompagnato da un bofonchiare continuo e insistente come il grugnito di un porco. Fino a che, un bel giorno, Cinzia puntò i piedi per terra e disse: o io o lei, o vado via io o va via la colf. Naturalmente, andò via la colf. Con la conseguenza che Venanzio dovette assumerne unaltra, e poi unaltra, e poi unaltra, nessuna delle quali sapeva fare le lenticchie in brodo di gallo come la prima. Con la conseguenza ulteriore che Venanzio, dopo avere inutilmente consultato le Pagine Gialle alla voce: ristoratori e simili, dopo aver pubblicato (in grassetto e altrettanto inutilmente) unofferta di lavoro così concepita: AAA cercasi donna tuttofare esperta lenticchie in brodo di gallo (che qualcuno scambiò per unallegra trovata, qualcun altro per un messaggio in codice), fu costretto ad assumere contemporaneamente una colf napoletana e una cuoca abruzzese, della quale aveva avuto referenze da non so chi, e che sapeva fare le lenticchie in brodo di gallo come Dio comanda. Solo quelle. Il lettore non me ne vorrà se ho esagerato, la storia delle lenticchie essendo (solo parzialmente) inventata. Vero è invece che Venanzio era innamorato pazzo della moglie e tutto avrebbe fatto per non dispiacere a Cinzia. Niente era mutato (se non in meglio) in quel misto di incanto, passione e attrazione fisica che aveva caratterizzato il rapporto fin dallinizio. Così, per dire, Venanzio e Cinzia facevano sesso ogni notte e, quando i ragazzi non cerano, anche di giorno. Nelle ore più impensate, nelle pose più svariate. Ma era di notte che Venanzio si esibiva in performance degne di un amatore con ormoni in eccesso. Era di notte che ad ogni rapporto si univano oh! di piacere e gridolini di orgasmo. Era di notte che Cinzia si lasciava andare con tutte le raccomandazioni di Venanzio: sta attenta, ci sentono i ragazzi. Che sentivano infatti. E una notte decisero di appostarsi. Dietro la porta di camera, lo sguardo a turno nel buco della serratura (le luci accese per via di Irene). E, quando Cinzia gridò, le fecero il verso: ma così bene che ai due che stavano di là apparve uneco. Chi è? chiese Venanzio, non avendo voglia di alzarsi. E, poiché nessuno rispose: un gatto in amore, disse convinto e si girò dallaltro lato. Il gatto in amore tornò la notte appresso. Venanzio si alzò. Vestito della sola giacca del pigiama, corse verso la porta, laperse e trovò Josep Maria, incollato al buco della serratura. Gli altri erano spariti. Josep Maria pagò per tutti. Un paio di ceffoni e una paternale che non dico. Col che Venanzio ritenne il capitolo chiuso. Non così per Cinzia: che ne fece una tragedia, o io o loro, sostenendo di non poter restare in una casa nella quale si sentiva spiata, neppure libera di far sesso. Venanzio prese tempo: ma, poiché Cinzia insisteva, affrontò la questione di petto. Propose a Cinzia di andare a vivere nella vecchia sua casa paterna, rimasta libera da che era morta la madre, nel 77. Casa però sita in collina, lontano dal centro, e priva di riscaldamento. Cinzia si oppose. E Venanzio dovette trovare unaltra soluzione. Non starò qui a descrivere gli andirivieni tra casa e agenzia, appartamenti in vendita e appartamenti sfitti. Fino a che, per fortuna di Cinzia, non fu messo in vendita un appartamento tricamere e accessori proprio in via dei Mille, nel condominio dove abitava la madre di Cinzia, al piano di sotto, e il problema fu risolto. 250 milioni di lire. In contanti, naturalmente. Altrettanto naturalmente, Venanzio dovette assumere unaltra colf, per la casa di via dei Mille, laltra rimanendo a Corso Mazzini. Passò invece da Corso Mazzini a via dei Mille la cuoca esperta in lenticchie in brodo di gallo. Che, essendo la pietanza preferita da Cinzia, era invisa ai figli di Elvira. I quali figli di Elvira andarono tutti assieme a Poggioreale a ringraziare lanima dei morti (la madre), non essendo più costretti a vivere con Cinzia, né a vedere Irene. Col che il discorso potrebbe dirsi esaurito, essendo venuta meno la ragione del contendere tra Venanzio e Cinzia, ed essendo pienamente soddisfatti i figli di Elvira. Senonché, una nuova tegola stava per abbattersi sulla testa di Venanzio. Del tutto imprevista. Perché Cinzia, nell85, una bella domenica di aprile, di prima mattina, si scoprì improvvisamente vuota dentro. Coi sintomi della depressione addosso. Depressione post partum. Ma erano due anni chera nata Irene. La verità era che a Cinzia non gli andava più di stare a casa. Voleva uscire. Voleva lavorare. Fuori di casa, non dentro. Dentro cera la colf (e cera la madre, al piano di sopra). Con tutta Irene, Cinzia voleva un lavoro quale che fosse. E qui ci volle del bello e del buono per convincere Venanzio. Che si scoprì geloso. Geloso di una moglie così giovane e bella, che prudenza suggeriva tenesse a casa, lontano da sguardi indiscreti (non solo quelli). Ma di che le donne non sono capaci, quando si mettono una cosa in testa. E quando luomo è innamorato pazzo. Per farla breve, Venanzio cedette. Anche se qualcosa ottenne, non ne uscì con le ossa rotte. Niente commessa, niente cassiera, niente contatto diretto col pubblico, Cinzia sarebbe andata come apprendista in una piccola azienda artigiana, specializzata nella produzione di moda Positano, dove il titolare, quarantenne con la moglie in menopausa precoce, fu felice di assumere la moglie del ginecologo (non si sa mai, può servire) in cerca di distrazioni antidepressive. Cinquantamila lire la settimana: questo il compenso, che non copriva neppure la spesa per la baby sitter (dietro langolo pronta). Ma Cinzia disse che cinquantamila lire erano anche troppe per una apprendista. Per il resto fu gentile (il titolare). Le fissò un orario niente male: dalle nove alluna, quattro ore al giorno: e si offrì di riaccompagnarla a casa, quando volesse. Gentilezza, questultima, non gradita da Venanzio: che diffidò la moglie dal farsi riaccompagnare. Lui, Venanzio, o lautista, o qualcun altro sarebbe passato: e, se proprio era necessario, prendesse il 218, fermata proprio sotto casa.
quarantasette
Non ebbe fortuna, Osvaldo Magoni, neppure col diabete. Lavesse scoperto in tempo, avrebbe potuto campare centanni con la pillolina, se non una due, se non due tre, oltre alla dieta e allesercizio fisico. Invece no: laveva scoperto in ritardo e, se scopri il diabete in ritardo, sei fottuto. Fottuto in parte, fottuto in tutto. Osvaldo Magoni fu fottuto in tutto. Fottuti gli occhi (e meno male cera il laser), fottuti i vasi (e meno male cera il by-pass), fottuto il cuore (e meno male cera lo stent), fottuto il rene (e meno male cera non so che). Insomma, tra interventi, ricoveri, day hospital, centri controllo, terapie domiciliari, prelievi a digiuno e post-prandiali (sempre con lago speciale), la qualità della vita di Osvaldo Magoni, che già prima non era al top, era scaduta al punto tale che talvolta, non spesso, gli veniva da chiedersi se ne valesse la pena (il massimo per un credente che avrebbe dovuto prendere esempio dal vecchio papa che, con mille malattie, appariva ancora allAngelus la domenica mattina). Ma, lho già detto, si trattava di momenti di sconforto comprensibili in un uomo provato dalla malattia: e chi non ha momenti di sconforto nella vita, persino Cristo, chera Dio, eli, eli, lamma sabactani, dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato. Passata la crisi di un momento, subito recuperava, pronto a difendersi col suo armamentario di pilloline, undici in tutto, oltre allinsulina. Ad azione rapida e rilasciata, non so quante unità, e sempre due volte al giorno, un infermiere maschio, non più Giorgina. E poi cerano i libri, non quelli in bozze, sarebbero venuti dopo, e poi cera Seneca, e cera Virgilio, e cera il Vangelo, e poi la preghiera, radio Maria, e poi quel nuovo ghiribizzo di scrivere non so che, e che nessuno doveva sapere. In breve: con tutti i suoi guai, il vecchio professore aveva raggiunto un suo equilibrio. Instabile, precario, ma equilibrio. Venne sconvolto, lequilibrio, dallultima delle disavventure, la più grave, la neuropatia. Ora, è vero che il 50% dei malati di diabete è destinato a sviluppare neuropatie nel corso della malattia. Ma Osvaldo Magoni lo sapeva. Lo sapeva dal momento stesso che aveva scoperto il diabete: con quelle vescicole alla pianta del piede durate un anno e neppure guarite. E non è detto che una neuropatia si accompagni necessariamente a un piede in cancrena. Per questo, sera sobbarcato con cristiana rassegnazione ai disagi della terapia, assumendo scrupolosamente le undici pilloline e facendo linsulina. Per questo aveva usato tutte le precauzioni, dalle scarpe con plantari personalizzati a pomate, unguenti e rimedi naturali. Per questo, si era sottoposto a controlli quotidiani, usando non so che specchi speciali per scrutare gli angoli più remoti della pianta del piede. Niente: la neuropatia insorse improvvisa con la forza esplosiva di un bulldozer cingolato. Complicata (la neuropatia) da vesciche ulcerose purulente che nel giro di una settimana si diffusero a tutto larto. Neuropatia fulminante: diagnosticarono i medici del San Giovanni di Dio, dove Osvaldo Magoni sera fatto di casa, conosciuto da tutti, dal primario del reparto alladdetta alla pulizia delle scale. Si prepararono i medici allintervento. Amputazione dellarto non so fino a che altezza. Naturalmente glielo dissero. Glielo dovettero dire. A parte il consenso informato, come avrebbero potuto nascondere ad Osvaldo Magoni che, dopo lintervento, si sarebbe trovato una gamba in meno. Tagliata e gettata tra i rifiuti ospedalieri. Glielo dissero, anche se cercarono di addolcire la pillola. Gli dissero che era già fortunato trattandosi di un arto anziché due (la malattia si estende facilmente a tutti e due), ancor più fortunato trattandosi dellarto inferiore sinistro (quello destro deve avere proprietà particolari) e, quanto al dopo, che i progressi biotecnologici erano in grado di fornirgli la più perfetta delle protesi. Quella, per capirci, che avrebbe permesso a Oscar Pistorius di partecipare alle Paralimpiadi di Atene del 2004. Pistorius o non Pistorius, Osvaldo Magoni si fece forza e assorbì il colpo, lultimo della serie. Si sottopose allintervento. La gamba fu amputata. E qui si verificò quello che Osvaldo Magoni non avrebbe mai immaginato. Mentre era ancora degente al San Giovanni di Dio e, subito dopo, convalescente dalla camera in cucina, vennero a trovarlo diecine di persone, più o meno mature, da sole o in compagnia. I vecchi allievi del Settembrini. Era successo che uno tra loro, essendo il padre ricoverato nella stessa stanza dospedale per lo stesso intervento subito da Osvaldo Magoni, aveva riconosciuto il professore, lo aveva salutato e ne aveva parlato in giro. Tutti a dire: poverino, la gamba amputata. Donde un tam-tam di telefonate, uneco incessante di: gamba, gamba, fino a che la notizia era arrivata a Roma alla Menandri, la rossa, quella della primavera di Praga, diventata nel frattempo segretario dellultimo partito dei lavoratori. E che, non potendo venire, si era preoccupata di diramare una lettera circolare agli allievi del Settembrini dal 63 al 95, prima, seconda e terza liceo corso A e corso B. Attingendo naturalmente al data-base del partito, e senza trascurare una (calda) telefonata. Caro professore. Gli altri vennero di persona. Venne il Croci, filosofo accreditato alla scuola del Popper, venne il Franchi, resocontista parlamentare con lesclusiva delle interviste al premier, venne il Villalta, fatto da poco direttore di collana della Perugia Libri. Venne la Arcuri diventata non so che. Vennero in tanti che il professore neppure più sapeva. Da quel tale che aveva avuto uno meno meno alla versione di latino al talaltro che aveva copiato il tema su Ugolino da non so che repertorio antico, e nessuno se ne sarebbe accorto, neppure il professor Magoni, se lo stesso tema, non una parola in più non una parola in meno, non lo avesse copiato un altro allievo dallo stesso repertorio antico (di avo diverso). Annullati entrambi per plagio confesso. Gli allievi del Settembrini. Sembravano, quelli venuti, avere avuto fortuna. Anche quello delluno meno meno, commerciante in oro e pietre, e quello del tema su Ugolino, titolare di discoteca mai condannato per spaccio di droga, e il professore, lavvocato, il farmacista, e così via. Gli allievi del Settembrini. Tutti sposati, tutti con figli, avevano vinto la battaglia della vita. Anche quelli che non sapevano unacca di italiano e latino. E nessuno, grazie a Dio, malato di neuropatia.