Terra di eroi, il Cilento: uomini coraggiosi, valorosi, dotati di spirito di sacrificio e di un amor patrio così forte da soffocare anche l’istinto alla vita. Queste caratteristiche emergono chiaramente dai moti cilentani del 1828, un episodio spesso trascurato ma di grande importanza storica nel contesto del Risorgimento italiano.
Questi eventi testimoniano quanto la strada per l’unificazione dell’Italia sia stata lunga, complessa e tortuosa nel Sud del paese, ma anche quanto sia stata fondamentale per la conquista dei diritti e delle libertà costituzionali. Quando si parla di questo particolare sconvolgimento storico, il comune di Bosco, che fino al 1828 era un’entità autonoma prima di diventare una frazione di San Giovanni a Piro, emerge come simbolo della violenta repressione del dissenso e della rivolta.
Ecco i Moti del Cilento
I moti furono organizzati dai Filadelfi, antichi carbonari nati in Francia nel 1799 e probabilmente guidati da Luciano Bonaparte. Questo movimento aveva acquisito seguaci e ramificazioni nel Regno di Napoli, in particolare in Puglia, nel Napoletano e infine nel Cilento. Il leader più influente, per la sua cultura, il suo passato e soprattutto per le sue grandi relazioni nel mondo sociale e politico, era il canonico Antonio Maria De Luca di Celle di Bulgheria, che successivamente divenne membro del parlamento del Regno nel 1820. De Luca esercitava un’enorme influenza sulle persone del distretto di Vallo Lucano (Vallo della Lucania) e in particolare nei mandamenti di Camerota, Pisciotta, Torre Orsaia e Laurito.
Era giugno 1828 e tutto era pronto per l’insurrezione, alimentata da una coscienza rivoluzionaria ormai consolidata, con l’obiettivo di abbattere il potere della casa regnante e imporre le necessarie riforme costituzionali per soddisfare le aspirazioni di libertà dei cittadini. Il territorio del Cilento, con la sua topografia sfavorevole, la mancanza di vie comode, la natura montuosa e l’assenza di un porto che avrebbe impedito alle truppe del Regno di raggiungerlo facilmente per attaccare, sembrava propizio per un primo atto di forza.
La ricostruzione della disfatta di Bosco
Tuttavia, il fallimento era imminente. Un congiurato di nome Antonio Galotti svelò involontariamente il piano di ribellione nelle sue parti più delicate. Il piano prevedeva l’arrivo a Vallo della Lucania di un contingente di 700 persone armate, che avrebbe ridotto all’impotenza la piccola guarnigione locale e avrebbe costituito la testa di ponte dei rivoluzionari cilentani. Successivamente, avrebbero marciato insieme alle legioni di Avellino e Benevento verso la capitale del Regno per imporre al sovrano le riforme costituzionali. Sebbene la strategia avesse potenziale di successo, le cose presero unapiega diversa.
La sera del 27 giugno, gli insorti disarmarono i gendarmi e le guardie urbane di Centola e si diressero verso Palinuro, dove speravano di trovare armi e munizioni. La fortezza fu occupata il mattino del 28 senza sparare un colpo, ma si trovarono solo pochi fucili al suo interno. Dopo aver interrotto le comunicazioni telegrafiche e diffuso un proclama in cui chiedevano le libertà costituzionali, proseguirono verso Camerota, dove li attendeva padre Carlo Guida dei Cappuccini di Maratea. Il 29 giunsero a Licusati e il 30 a San Giovanni a Piro.
Nello stesso giorno, le truppe borboniche guidate dal maresciallo Francesco Saverio Del Carretto, un ex carbonaro, raggiunsero il Cilento meridionale con due navi da guerra e otto compagnie di soldati. Alcune truppe sbarcarono a Paestum, altre a Policastro e il resto si mosse in direzione di Sala, accerchiando di fatto gli insorti.
La reazione borbonica fu brutale. Bosco, colpevole di aver accolto con maggior entusiasmo i rivoltosi rispetto agli altri paesi, subì la peggiore sorte per ordine di Del Carretto. Con queste parole: “Se riede clemenza dopo giusto furore, l’esistenza però del comune di Bosco sarebbe insoffribile. Sia dunque distrutto, e non lasci delle perfide sue mura vestigio alcuno”, Bosco fu completamente rasa al suolo. Questa era la città natale del sacerdote Raffaele Fatigati, in contatto con i Filadelfi, e che ospitò spesso il canonico Antonio Maria De Luca, considerato uno dei capi della rivolta. I gendarmi entrarono nelle case, le saccheggiarono, le incendiarono e fucilarono immediatamente venti patrioti, deportandone circa 50. Era il 7 luglio 1828.
Il pannello celebrativo ad opera di Josè Ortega
Del Carretto definì quelle zone come “terra dei tristi”. All’estero, invece, soprattutto alcuni giornali inglesi parlarono della “terra degli eroi”. E Bosco rimase un simbolo di quegli eventi.
Non a caso, Josè Garcia Ortega, amico e allievo di Picasso, si stabilì proprio a Bosco per alcuni anni. Un pittore-artista simbolo di libertà, perseguitato e imprigionato in Spagna dal regime franchista, fu affascinato dal Cilento. Si stabilì a Bosco, dove dipinse un pannello commemorativo sui moti del 1828, raffigurante i soldati borbonici in marcia.
I moti cilentani del 1828 rimangono una pagina importante nella storia del Risorgimento italiano e nella lotta per l’unificazione del paese. Il coraggio e la determinazione dei ribelli cilentani sono un esempio della forte volontà di libertà e del desiderio di riforme costituzionali che caratterizzavano l’epoca. Nonostante la repressione brutaleTerra di eroi, il Cilento: uomini coraggiosi, valorosi, dotati di spirito di sacrificio e di un amore patrio così intenso da soffocare anche l’istinto di sopravvivenza. Queste caratteristiche emergono chiaramente dai moti cilentani del 1828, un episodio storico spesso trascurato ma di grande importanza nel percorso verso l’unificazione dell’Italia. Questi eventi ci mostrano quanto lunga, complessa e tortuosa sia stata la strada verso i diritti e le libertà costituzionali nel Sud Italia.
Quando si parla di questo particolare periodo storico, Bosco, un tempo comune autonomo diventato successivamente frazione di San Giovanni a Piro, diventa il simbolo della repressione violenta del dissenso e della rivolta.
I moti furono orchestrati dai Filadelfi, antichi carbonari nati in Francia nel 1799 e probabilmente guidati da Luciano Bonaparte. Questo movimento aveva acquisito seguaci e si era diffuso nel Regno di Napoli, soprattutto in Puglia, nel Napoletano e infine nel Cilento. Il leader più influente, per la sua cultura, il suo passato e soprattutto per le sue importanti connessioni nel mondo sociale e politico, era il canonico Antonio Maria De Luca di Celle di Bulgheria, che successivamente divenne membro del parlamento del Regno nel 1820. De Luca esercitava un’enorme influenza sulle persone del distretto di Vallo Lucano (Vallo della Lucania), in particolare nei mandamenti di Camerota, Pisciotta, Torre Orsaia e Laurito.
Era il giugno del 1828 e tutto era pronto per l’insurrezione, alimentata da una consapevolezza rivoluzionaria consolidata che mirava a sfidare il potere della casa regnante affinché si adattasse alle esigenze del tempo e alle aspirazioni di libertà dei cittadini, e a ripristinare la costituzione del 1820.
L’insurrezione
Il territorio del Cilento, con la sua conformazione topografica sfavorevole caratterizzata dalla mancanza di strade agevoli, la natura montuosa e l’assenza di un porto che avrebbe impedito alle truppe del Regno di raggiungere facilmente la zona per attaccare, sembrava essere un luogo adatto per un’azione di forza iniziale.
Tuttavia, l’insurrezione fallì. Un congiurato di nome Antonio Galotti rivelò involontariamente i dettagli più sensibili del piano di ribellione. Il piano prevedeva l’arrivo a Vallo della Lucania di un contingente di 700 persone armate che avrebbe sopraffatto la piccola guarnigione locale e si sarebbe unito agli insorti cilentani per marciare insieme alle legioni di Avellino e Benevento verso la capitale del Regno, per imporre al sovrano le riforme costituzionali. Sebbene la strategia avesse il potenziale per riuscire, le cose presero una piega diversa.
La sera del 27 giugno, gliinsorti disarmarono i gendarmi e le guardie urbane di Centola e si diressero verso Palinuro, sperando di trovare armi e munizioni. Il mattino del 28, occuparono la fortezza senza sparare un colpo, ma trovarono solo pochi fucili al suo interno. Dopo aver interrotto le comunicazioni telegrafiche e diffuso un proclama in cui chiedevano le libertà costituzionali, si diressero verso Camerota, dove li attendeva padre Carlo Guida dei Cappuccini di Maratea. Il 29 giunsero a Licusati e il 30 a San Giovanni a Piro.
Nello stesso giorno, le truppe borboniche guidate dal maresciallo Francesco Saverio Del Carretto, ex carbonaro, arrivarono nel Cilento meridionale con due navi da guerra e otto compagnie di soldati. Alcune truppe sbarcarono a Paestum, altre a Policastro e il resto si mosse verso Sala, circondando di fatto gli insorti.
La reazione borbonica fu brutale. Bosco, colpevole di aver accolto con maggiore entusiasmo i ribelli rispetto agli altri paesi, subì la peggiore sorte su ordine di Del Carretto.
Con queste parole: “Se dopo il giusto furore segue la clemenza, l’esistenza del comune di Bosco sarebbe insopportabile. Pertanto, sia distrutto e non lasci traccia delle sue mura infide“, Bosco fu completamente raso al suolo. Questa era la città natale del sacerdote Raffaele Fatigati, in contatto con i Filadelfi, e che spesso ospitava il canonico Antonio Maria De Luca, considerato uno dei leader della rivolta. I gendarmi entrarono nelle case, le saccheggiarono, le incendiarono e fucilarono immediatamente venti patrioti, deportandone circa cinquanta. Era il 7 luglio 1828.
Del Carretto definì quelle zone come “terra dei tristi“. All’estero, invece, soprattutto alcuni giornali inglesi, parlavano di “terra di eroi“. E Bosco rimase un simbolo di quegli eventi.
Non a caso, Josè Garcia Ortega, amico e allievo di Picasso, si stabilì proprio a Bosco per alcuni anni. Un pittore-artista simbolo di libertà, perseguitato e imprigionato in Spagna dal regime franchista, fu affascinato dal Cilento. Si stabilì a Bosco, dove dipinse un pannello commemorativo sui moti del 1828, raffigurante i soldati borbonici in marcia.