Esiste un vantaggio competitivo che tutti possono acquisire e sfruttare in ogni campo della vita, dalla sfera personale a quella professionale. Si tratta della conoscenza. Il sapere è sempre stato un fattore determinante per il successo inteso come crescita intellettuale, ma nel secolo delle connessioni globali assume inevitabilmente una valenza fondamentale. Non il sapere nozionistico, ma ragionato e minimamente approfondito. E anche la lingua con l’apprendimento di nuovi linguaggi rappresenta un elemento cardine. Lo dimostra Li Wei con la sua ricerca sul multilinguismo realizzata nel 2012 in base alla quale i cosiddetti poliglotti acquisiscono un vantaggio cognitivo strategico rispetto agli altri.
La lingua è stata indagata recentemente anche da uno studio statistico realizzato da Preply, la piattaforma educativa online che mette in connessione studenti e tutor da ogni parte del mondo per l’apprendimento da remoto di una nuova lingua. Questa volta l’indagine ha enumerato molteplici indicatori con una classifica finale dei 27 paesi dell’Unione Europea, mostrando i primi della classe e gli ultimi. Per la precisione, l’indagine ha analizzato le nazioni con l’ambiente più favorevole per lo studio di una nuova lingua in patria, tralasciando quindi le esperienze all’estero stile Erasmus.
Tra i paesi dell’Unione non figura ovviamente il Regno Unito che tramite la chiacchieratissima Brexit ha abbandonato il sistema istituzionale comune del vecchio continente. L’indagine ha preso in considerazione sette macro indicatori valutati con un punteggio da zero a cento: le lingue o la lingua ufficiale di un paese, il plurilinguismo, l’apprendimento tramite istruzione pubblica, il livello di conoscenza di una lingua straniera, l’apprendimento con strumenti digitali, il voiceover e il doppiaggio o sottotitolaggio di film e serie TV, la diversità linguistica. La classifica finale dipinge uno scenario europeo piuttosto netto in cui il centro nord sopravanza il sud est.
Il Lussemburgo comanda il vertice della graduatoria. Si tratta del paese più virtuoso in cui l’apprendimento di una nuova lingua in patria è sensibilmente più facile. Anche le lingue ufficiali sono molteplici: tedesco e francese si aggiungono infatti al lussemburghese. E poi il 100% dei bambini studia con successo fin dalla scuola pubblica primaria una nuova lingua acquisendo da subito un vantaggio cognitivo e competitivo. Ma del resto, una tendenza così spinta è tanto più forte quanto minore è l’identità di un popolo e il Lussemburgo sembra appartenere a questa categoria di paesi.
L’Italia si posiziona completamente all’opposto della classifica, con un poco invidiabile penultimo posto. Gli italiani non sono dei poliglotti, anche se il 95,3% dei bambini inizia a studiare una nuova lingua dalla scuola pubblica primaria. E il sito del Governo è clamorosamente consultabile solo in italiano: un dettaglio che mostra la nonchalance con cui si evita la commistione con altre lingue. Lingue, ma non culture, considerando che da nord a sud sono sparse numerosissime minoranze etniche con almeno 47 idiomi parlati. L’Italia è sempre stato un paese aperto ma se da un lato conserva una fortissima identità nazionale, dall’altro sconta un gap, forse esclusivamente tecnologico, che allontana una larga fetta di popolazione dall’apprendimento di nuove lingue e dall’acquisizione di un vantaggio strategico cognitivo.