Per decenni gli studi scientifici hanno ‘indagato’ l’omosessualità come ‘problema’ da conoscere e, spesso, ‘risolvere’. È solo dai primi anni settanta che la comunità scientifica ha iniziato a considerare come oggetto di studio e ricerca non tanto l’omosessualità, quanto l’omofobia, nelle sue molte manifestazioni.
Se per tanti anni la domanda è stata «Perché sei omosessuale?» (domanda senza risposta, esattamente come «Perché sei eterosessuale?», anche se quest’ultima è raramente formulata), oggi la domanda è sempre più spesso «Perché sei spaventato dall’omosessualità o ostile alle persone omosessuali?». La ricerca sulle cause (il più delle volte considerate patologiche) dell’omosessualità ha progressivamente ceduto il passo alla ricerca sulle cause e le espressioni dell’omofobia.
Di pari passo è cambiata la pratica clinica, che ha abbandonato i modelli patologizzanti e bandito le cosiddette ‘terapie riparative’ (finalizzate alla cura dell’omosessualità), la cui inefficacia e i danni emotivi prodotti sono scientificamente ben documentati.
È uno psicologo, George Weinberg, a coniare, nel 1972, la parola omofobia per descrivere la paura irrazionale di trovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali e le reazioni di ansia, disgusto, avversione o intolleranza che alcuni eterosessuali possono provare nei confronti di persone gay e lesbiche. Dal problema sociale rappresentato dall’omosessualità Weinberg sposta l’attenzione a quello psicologico degli atteggiamenti verso di essa, privilegiando gli aspetti emotivi dell’omofobo più di quelli cognitivi. Tuttavia, pur annoverandola tra le ‘fobie classiche’, Weinberg sottolinea la portata aggressiva dell’omofobia e la propensione a convertirsi in violenza, caratteristiche che la qualificano come fobia ‘atipica’.
Il termine omofobia, infatti, porta l’attenzione soprattutto sulle cause individuali e irrazionali della ‘fobia’, trascurandone componenti cognitive e radici culturali e sociali, oltre che la parentela con altri modi di ‘odiare in prima persona plurale’, come la misoginia, la transfobia, il razzismo, la xenofobia. Molti studiosi preferiscono, dunque, il concetto multidimensionale di omonegatività, secondo il quale l’omofobia in senso stretto sarebbe solo un fattore nel contesto più ampio di atteggiamenti che coinvolgono il piano sociale, politico, culturale, legale, morale. In altre parole, molti dei comportamenti e affermazioni comunemente considerati omofobici o transfobici non sono principalmente basati sulla paura o l’imbarazzo, ma piuttosto sul pregiudizio e la disapprovazione.
Tuttavia, sebbene abbia esteso la classificazione degli atteggiamenti antiomosessuali, il termine omonegatività è stato poco utilizzato.
L’ avversione o la diffidenza nei confronti di gay e lesbiche deriva dalla preoccupazione per un disordine, qualcosa di ‘fuori posto’ rispetto ad assegnazioni binarie rassicuranti e eteronormative del tipo ‘i maschi sono attratti dalle femmine’ e ‘le femmine sono attratte dai maschi’. Al punto da pensare che se una donna è attratta da una donna ‘non è una vera donna’ e se un uomo è attratto da un uomo ‘non è un vero uomo’ (confondendo così l’orientamento sessuale con l’identità di genere). Da qui il bisogno di darsi una rassicurazione riguardo alla propria ‘mascolinità’ o ‘femminilità’ e, implicitamente, alla propria ‘eterosessualità’.
Un fondamento dell’omofobia, infatti, consiste in una sorta di polarizzazione difensiva dei ruoli di genere, che porta a temere o disprezzare i fantasmi di passività e dipendenza nell’uomo e di attività e autosufficienza nella donna. Si tratta di credenze ingenue e fortemente influenzate dagli stereotipi di genere, ma terribilmente efficaci nel lasciare pregiudizi e ingiustizie ‘al loro posto’.
«Non occorre essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi» recita un verso di Emily Dickinson. I fantasmi dell’omofobia possono occupare la psiche in vari modi. Alcuni hanno la prepotenza del bullismo, altri possono sembrare addirittura pietosi e tolleranti. «La tolleranza é una forma di condanna più raffinata», diceva Pier Paolo Pasolini.
Spesso le persone omosessuali stesse producono autodisprezzo, vergogna, a volte la voglia di farla finita. Qui il termine tecnico è omofobia interiorizzata, a indicare l’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una persona può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti della propria omosessualità. Lo stigma percepito riguarda, invece, il livello di vigilanza relativo alla paura di essere ‘identificati’ come gay o lesbiche, per cui quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto più alto sarà il grado di allerta e sensibilità all’ambiente. Rientra nella dimensione dello stigma percepito anche il timore per le reazioni che potrebbe suscitare il proprio coming out, per esempio in famiglia o sul posto di lavoro.
Soprattutto quando la personalità è ancora in formazione, sopportare il peso dello stigma sociale, l’incomprensione dei propri genitori, la derisione dei compagni di scuola, può essere davvero insopportabile.
L’omofobo, sia maschio che femmina, per recuperare benessere dovrebbe ricercare le motivazioni profonde che lo condizionano negativamente, nei processi di pensiero e di azione, verso le diverse possibili relazioni interpersonali. Se c’e’ una difficoltà ad affrontare in modo autonomo tale stato di disagio o sofferenza andrebbe accompagnato a farlo con il supporto di uno psicologo, con la rassicurazione che la sua identità non può esserne compromessa.
Con transfobia si intende un insieme di stigmatizzazioni e pregiudizi discriminatori nei confronti delle persone transgender e transessuali o della transessualità in generale. La transfobia può includere paura, avversione e odio, provati o espressi nei confronti di persone che non si conformano alle aspettative sociali di genere e può portare a comportamenti discriminanti nella società o nel lavoro, o negazione di diritti, fino a manifestazioni di aggressività violenta e violenza sessuale.
È importante ricordare che non si nasce omofobi; lo si diventa attraverso l’educazione, i messaggi, diretti e indiretti, che la famiglia, la politica, la Chiesa e i media, ci trasmettono. Fin da bambini tutti noi acquisiamo convinzioni e valori che ci vengono presentati come assolutamente giusti e legittimi.
Decenni di studi hanno dimostrato che non è l’omosessualità, ma l’omonegatività, che deve essere curata in quanto malattia socio-culturale antica e radicata: può essere combattuta e nel tempo debellata con l’integrazione, l’informazione, il rispetto e l’educazione sociale al valore delle diversità.