15mila reazioni, 2600 commenti, quasi mille condivisioni. Sono questi i numeri che ha raggiunto su Facebook, in circa due ore, lo sfogo dello scrittore capaccese Pierpaolo Mandetta. Il suo messaggio descrive un episodio che lo ha visto suo malgrado protagonista. Un insulto alla sua omosessualità pronunciato da un gruppo di ragazzi che gli ha provocato profondo dolore. E il suo sfogo, che potrebbe essere lo stesso di migliaia di giovani che ogni giorno vengono insultati immotivatamente ha scosso le coscienze di tanti che hanno voluto esprimergli parole di affetto e vicinanza, o semplicemente condividere le sue parole per l’episodio accaduto oggi in un podere di Cafasso.
Questo il messaggio:
Non mi chiamavano ricchion* da quando frequentavo le scuole superiori, e oggi, a 33 anni, è successo proprio per mano di ragazzi di quell’età.
Non li chiamerò bambini o ragazzini, come a sminuire la cosa o ad attenuarla, perché a quindici o sedici anni non sei un uomo, ma un minimo di educazione civile devi averla.
Stasera, intorno alle 17:30, stavo lavorando nel Podere con un amico, ed è passato di fronte al casale un branco di sei ragazzi sui motorini. Passano sempre, ogni pomeriggio, con due cani sciolti, uno nero e uno marrone, ma in genere sono un paio di loro che arrivano fin lì. Stavolta c’era tutta la comitiva.
Pensando che io fossi in casa e quindi di non essere visti, uno di loro ha urlato “ricchion”. Poi si sono accorti che invece ero nel parco e che li avevo riconosciuti, così hanno accelerato e sono usciti dalla campagna. Penso siano tutti figli delle famiglie del Cafasso, il borgo di Capaccio Paestum in cui è situato il Podere. Non li conosco, non posso sapere se le loro famiglie sono di brave persone che non immaginano di avere figli di merda o se siano delle merde anche i genitori. Ma una cosa la so: credevo che non facesse più male. Di averla superata. Di essere un uomo che ha trasformato quei ricordi in cicatrici e che capisce che là fuori ci sono persone crudeli, bisogna solo resistere. Invece non è così. Ho fatto finta di niente, ho chiuso gli attrezzi nel capanno, sono salito in macchina per tornare a casa e quando ho messo in moto sono scoppiato a piangere. Come se non fosse passato un giorno da quei tempi in cui quei ragazzi di quindici e sedici anni mi chiamavano ricchion a scuola e mi rovinavano per sempre la vita. Come se avessi ancora paura, e adesso so che è così. Ho ancora paura del mondo.
Io so perfettamente cosa vuol dire essere gay in un paese di provincia. Discorsi sull’orgoglio e sul combattere vanno a farsi fottere quando intorno a te hai persone che fanno in modo che tu sia socialmente evitato, escluso o chiacchierato, o quando hai intorno uomini, padri di famiglia, che fanno della virilità un vangelo e conservano il fucile nel garage, per risolvere i problemi. So perfettamente che tante persone diranno cose del genere alle mie spalle, che penseranno che io faccia schifo e va benissimo. A me non interessa niente di avere il rispetto degli sconosciuti o l’accettazione da gente orribile. Ma di certo non posso sopportare di essere insultato a 33 anni, di provare di nuovo paura nel posto che diventerà la mia casa e mi darà un lavoro. Non posso essere colpito al cuore nel posto in cui vorrei sentirmi più al sicuro.
Pubblico questa foto senza vergogna, non importa se così mi rendo vulnerabile o ridicolo, perché ripeto che non è una questione di forza, di lotta o resistenza. Fa male e basta. È una violenza e non è giusto. E la pubblico affinché chi li conosce capisca il dolore che possono causare dei ragazzi di quell’età. Perché se lo fanno a me, vuol dire che lo faranno anche a scuola, e magari stanno distruggendo l’adolescenza a qualcuno come successe ai miei tempi.