Il “pane dei poveri”, così veniva chiamato il fico essiccato, essendo un cibo economico, di buona conservazione, con alto contenuto calorico. Per questi motivi era consumato, prevalentemente, dalle famiglie povere. In ogni casa c’erano dei cassoni pieni di fichi secchi di seconda (mezzo fico) e terza scelta (fichi di scarto).
L’aumento della produzione dei fichi secchi si ebbe quando, per le loro caratteristiche, divennero sulle navi, nei lunghi viaggi oceanici, il pasto principale dei nostri emigranti. Di conseguenza, aumentò l’esportazione, sia per accontentare gli emigranti italiani, sia per conquistare commercialmente nuovi mercati. L’aumento della richiesta di fichi secchi indusse i produttori locali ad intensificare la coltivazione delle piante da fico con la varietà Dottato, il fico più bello del mondo, migliorando anche la qualità del prodotto.
Agropoli, per oltre un secolo, è stato il centro della lavorazione e della commercializzazione dei fichi secchi in tutto il mondo. Creando sul territorio, un impatto positivo per interi comparti dell’economia locale e per i ceti sociali agropolesi. Nel 1850 iniziò a lavorare e a commercializzare i fichi secchi, il Cav. Antonio Scotti. Nel 1882 la ditta “Davide Pecora e figli” aprì un ingrosso per la vendita di frutta secca, vini ed oli del Cilento, con speciale menzione per i fichi secchi. Dopo qualche anno i fratelli Pecora aprirono una sede commerciale a Yonkers nello Stato di New York. Nello stesso anno, iniziò l’attività l’azienda “Pietro Avenia e C.”, che esportava in Italia e in America.
Nel 1888 fu la volta dell’azienda di Ignazio Botti, grande produttore, che esportò il dolce nettare in Europa e negli Stati Uniti. Seguirono nei primi decenni del 1900 le ditte F. Rossi, Sarnicola, A. Liquori, Alfonso e Vito Benincasa, nonché numerosi produttori cilentani di Prignano, Torchiara, Ogliastro, Castellabate, Vallo della Lucania, etc.. Nel 2002, il Fico Bianco del Cilento divenne prodotto D.O.P., stimolando le aziende produttrici locali, ad attuare un rigoroso protocollo di lavorazione artigianale con l’utilizzo esclusivo di fichi del Cilento.
Antonio Voso iniziò a lavorare nel settore dei fichi da giovanissimo, collaborando con vari grossisti e commercianti agropolesi. Poi nei primi anni quaranta, il grande passo, divenne il referente della Ditta Benedetto Noverasco di Albenga (Savona), che aprì ad Agropoli una filiale per la produzione di fichi secchi. La Noberasco, fondata come “Ditta Individuale Benedetto Noberasco”, nacque ad Albenga nel 1908, con l’obiettivo di raccogliere e confezionare i prodotti ortofrutticoli italiani.
Il 30 maggio 1942, depositò su il “Registro Marchi”, ufficio di Savona, l’etichetta con la dicitura: “La Contadina di Agropoli, di Benedetto Noberasco”.
Oggi la “Noberasco S.p.A.” fattura svariati milioni di euro all’anno, esporta in tutto il mondo e nel suo catalogo propone oltre 100 prodotti, tra frutta secca morbida ed essiccata.
Durante il corso della Seconda Guerra Mondiale, l’azienda di Agropoli fu requisita dal Ministero della Guerra per lavorare e confezionare fichi da inviare ai soldati in guerra.
Dopo gli eventi bellici, Antovio Voso cessò la sua collaborazione con la “Noberasco”, che cedette l’azienda alla “Murano” di Pomigliano d’Arco, che ancora oggi è presente ad Agropoli. Agli inizi degli anni cinquanta, Antonio Voso con l’aiuto della moglie e dei giovani figli, iniziò la sua produzione con la denominazione “Lavorazione Fichi Secchi” di Antonio Voso, aprendo un piccolo laboratorio artigianale in via Matilde Serao.
Pian piano, anno per anno, l’azienda cresceva. Nel 1958, Antonio Voso ricevette alla diciottesima Mostra Nazionale di Frutta e Ortaggi di Verona, il “ Gran Diploma d’Onore”.
Si riforniva dei fichi prodotti dai contadini di vari paesi cilentani:
Cicerale, Ogliastro, Prignano, Torchiara, Rutino, Laureana, Perdifumo, Sessa, Stella, Omignano, Serramezzana, S.Mauro Cilento, Giungano. Spostandosi fino alla Valle del Calore e agli Alburni. Quando i fichi freschi, una volta raccolti dalle “ficaiole”, si erano essiccati sulle “jenestre” al sole, Antonio Voso li ritirava e li trasportava in azienda. Prima della lavorazione, i fichi venivano collocati in una cabina chiusa ermeticamente, dov’erano trattati sotto l’attento controllo di un esperto chimico che, con il giusto dosaggio imposto dalla legge, procedeva alla sterilizzazione, per eliminare eventuali batteri e parassiti. Quindi seguiva la fase della lavorazione ad opera delle “Incollettatrici”.
Negli anni cinquanta, i fichi secchi della Ditta Voso, oltre alla vendita sui mercati del Nord Italia, erano esportati in Francia, Germania, Belgio, nonché in Venezuela e nel Nord America.
Per le spedizioni all’estero, le confezioni di fichi secchi erano collocate in cassette di legno inchiodate, sigillate e piombate. Quindi, spedite tramite camion o treno. Per le spedizioni oltre Oceano si utilizzavano le navi in partenza dal porto di Napoli.
La produzione della ditta di Antonio Voso si aggirava intorno ai 200 quintali, con circa 80 lavoranti stagionali, in buona parte donne. Gli orari di lavoro erano di otto ore, ma a volte, per rispettare le scadenze, soprattutto per l’estero, si lavorava fino a sera inoltrata. Negli anni sessanta, Antonio Voso introdusse la produzione dei fichi con le mandorle ricoperti di cioccolata; i mercati più floridi per la vendita erano le grandi città italiane.
Negli anni settanta, con la concorrenza della Turchia e della Grecia, pur essendo i loro fichi secchi meno pregiati, la produzione iniziò a calare fino a diventare antieconomica, costringendo Antonio Voso, con grande rammarico, a chiudere la sua azienda.
Qual era la giornata delle “incollettatrici”?
Questa che segue è la testimonianza di Silvana, figlia di Antonio Voso, che ci apre un mondo fino ad oggi inesplorato, pieno di orgoglio, speranza, felicità e sacrificio da parte di centinaia di donne agropolesi e cilentane, che lavoravano per lenire le difficoltà economiche della propria famiglia e per realizzare un proprio sogno di riscatto sociale.
La testimonianza è arricchita dai ricordi delle sorelle Valeria, Anna e Claudia, e del fratello Vincenzo:
“Questi ricordi li voglio dedicare a mio padre, uomo che si è sempre impegnato, con dedizione ed operosità, al suo onesto lavoro. E a mia madre che, nel suo compito attivo e diligente di collaboratrice, gli è stata sempre vicino nell’attività aziendale.
Come figlia, ultima di cinque, sono stata sempre attratta da quello che, dalla fine di Agosto a Dicembre, rappresentava per tutta la famiglia, un momento di attiva collaborazione ed aggregazione, affinché la “campagna dei fichi” desse eccellenti risultati. Ma l’evento eccezionale, ricordarlo ancora oggi mi emoziona, era quel “fiume” di ragazze, che allegramente e rumorosamente, con gli zoccoli ai piedi, scendevano gli Scaloni del centro storico. Lo facevano cantando lungo tutto il percorso. Quante volte i residenti si lamentavano con mio padre per quella sorte di “schiamazzi”. Cantavano e scherzavano mentre spostavano cassette, plateau, sporte, sacchi di iuta, colmi di fichi; dagli autocarri ed altri mezzi di trasporto, alla bascula per la pesa esatta. Quindi, le chiudevano ermeticamente nella cabina per la sterilizzazione.
Le ragazze, cantavano e ridevano, quando prendevano posto ai banchi di lavoro, realizzati con lunghi tavoloni appoggiati su cavalletti. Iniziavano la selezione dei fichi: dai medi, adatti ai pacchetti, a quelli più grandi, per le confezioni dei sacchetti e delle bomboniere; dai fichi di prima scelta e più pregiati, detti “Fioroni”, venduti alla rinfusa, ai fichi di risulta, che venivano ceduti alle distillerie per la produzione di alcool per liquori”.
La lavorazione e il confezionamento dei fichi secchi era una delle fasi più delicate, che le donne agropolesi superavano brillantemente. Con le loro mani esperte, realizzavano, artigianalmente, delle piccole “opere d’arte” pronte per la vendita”.
Silvana continua il suo racconto, illustrandoci alcuni tipi di confezioni, realizzate per la vendita dei fichi secchi della ditta del padre, Antonio Voso: “Le ragazze disponevano i fichi in sacchetti di cellophane, allungati leggermente, aiutandosi con una piccola tavoletta di legno. Li deponevano in forme rettangolari di legno, da 200 o 400 grammi, cosiddetti “pacchetti appiattiti”, poi sotto una pressatrice per compostarli.
Concatenavano i fichi e li sistemavano in forme di legno circolari, che a lavorazione ultimata, erano legate con nastrino, a mo’ di bomboniera. C’erano poi i fichi più prelibati, cosiddetti “ammunnati”, perché sbucciati ancora freschi e poi essiccati, lasciando all’esterno una patina bianca zuccherina. Si procedeva alla preparazione di questi alla “smirne”, modellando i fichi in forma tondeggiante. Negli anni sessanta, nuove modalità di confezionamento, s’integrarono a quelle tradizionali, con manufatti in cartoncini di vari formati. Le ragazze cantavano quando collocavano le confezioni in scatoli di cartone o in sportoncini con coperchio, realizzati con listelli in legno di castagno, intrecciati magistralmente, dagli artigiani “sportellari” del Cilento. Su ogni collo s’imprimeva una sigla, a seconda della destinazione. Per il carro in partenza, usavano fare agilmente, con un breve lancio, il “passamano” con una catena umana”.
In quei mesi, si creava un clima di familiarità e le ragazze, durante la pausa per il pranzo, si aprivano e svelavano i progetti, le aspirazioni, i sogni che ognuna di loro aveva.
“Durante la pausa pranzo – ricorda Silvana – le “figliole” come affettuosamente le chiamava papà, si preparavano l’acquasale, con il pane biscottato bagnato e i pomodori. Poi gustavano il caffè preparato da mamma e qualche volta anche il gelato. Ricordo che facevano progetti di come spendere il salario guadagnato: chi per completare il corredo, chi per aiutare la famiglia, chi per comprare un capo di abbigliamento o un paio di scarpe alla Fiera del 22 Novembre”.
Ma le ragazze agropolesi, quelle lunghe e faticose giornate, le affrontavano con serenità e allegria, perché per loro, il periodo della lavorazione dei fichi, rappresentava un’alternativa alla loro vita, a quei tempi, fatta di casa e chiesa. Un modo di evadere dalla monotona routine quotidiana. Ma era anche l’occasione per sognare di trovare il “Principe Azzurro” o incontrare il proprio fidanzatino.
Ricorda Silvana: “Era abitudine delle ragazze inserire dei “bigliettini” nelle confezioni, con i propri nomi e indirizzi, per contattare amici o fidanzati. Molte di loro si sono sposate con giovani del Nord Italia e, addirittura, del Nord America. Quando la giornata lavorativa era terminata, uscivano e ad attenderle fuori, c’erano i corteggiatori o i fidanzatini appoggiati al muretto di fronte. Altri gruppetti di ragazze si attardavano a passeggiare in corso Garibaldi “miezz ‘o cumune”. Ancora oggi, incontrando delle signore, riconoscendomi, parlano di quei bei tempi. Altri signori attempati, mi rivelano che spesso si recavano presso i nostri magazzini, sicuri di trovare mio padre ben disponibile a regalargli dei fichi, che a loro detta, li aiutavano a placare la fame. Quanti ricordi!!! Durante quelle sere, io, piccolissima, mi adagiavo sui sacchi di juta e, come in un sogno, una voce femminile diceva…portate a casa la bambina che si è addormentata”.