Nel silenzio generale, sia da parte della cultura nazionale che di quella locale, ma anche di quello stesso “sonnecchiante Cilento” che il grande scrittore aveva amato follemente sin da ragazzo, è passato inosservato un evento certamente non secondario, almeno rispetto a certe tematiche di minore importanza e rilevanza mediatica, le quali, al contrario, hanno tenuto banco sui Media: i cento anni della nascita del grande saggista, scrittore ed educatore Uruguayano José Pedro Díaz d’Onofrio, nelle cui vene, come approfondiremo a breve, scorreva anche il nobile sangue Cilentano.
La vita del famoso scrittore Josè Pedro Diaz D’Onofrio
Lo scrittore José Pedro Díaz D’Onofrio nacque, infatti, a Montevideo, la bellissima Capitale della Repubblica Orientale dell’Uruguay il 12 gennaio del 1921, figlio di Fernando Díaz, di chiare origini Spagnole, e di Rosa D’Onofrio, di origini Italiane, nella casa di Calle Julio Herrera Y Obes. E fu proprio durante la sua fanciullezza che José Pedro iniziò a interessarsi del Cilento, la lontanissima località della Provincia di Salerno dalla quale erano partiti, sul finire dell’Ottocento il nonno materno (Pietro) e i suoi fratelli, fra i quali Domenico, il quale, come vedremo, sarebbe stato al centro di un suo celebre libro.
Quella dei D’Onofrio era stata una delle tante famiglie di Marina di Camerota che s’erano spinte oltre Oceano in cerca di fortuna. Emmanuele D’Onofrio e sua moglie, Chiara Ottati, avevano messo al mondo vari figli, ancor prima dell’unificazione nazionale del 1861. Ai cinque maschi di casa s’erano aggiunte anche non poche femmine, una vera e propria nidiata alla quale il vecchio pescatore non poteva certo provvedere da solo.
Ecco perché, molto probabilmente sul finire del secolo alcuni dei cinque figli maschi (nell’ordine Pasquale, Pietro, Francesco, Vincenzo e Domenico) decisero di emigrare in Uruguay, l’ospitale Paese del Sud America ove già allora era molto consistente la colonia dei Cilentani e, in particolar modo, quella degli oriundi di Camerota. Domenico D’Onofrio, nato a Camerota il 5 novembre del 1863 era il figlio maschio più piccolo e, molto probabilmente, anche per tale ragione fu quello che ebbe più di altri la possibilità di veder crescere il nostro José Pedro.
Il prozio Domenico, che qualche storico identifica, invece, come fratello di Rosa, madre di José, era rimasto un uomo umile, un uomo che anche a Montevideo aveva esercitato 1 il mestiere del mare, quel mestiere che logora sì le mani e il resto del corpo, ma che più di altri sviluppa, invece, l’immaginazione, coltivando la memoria. Ebbene, nel corso degli anni ’30 – come testimoniò lo stesso José Pedro Díaz, lo Zio Domenico ebbe la possibilità di raccontare al nipotino del fratello Pietro (che forse Josè non aveva potuto conoscere a fondo, tenendo presente che l’uomo era nato a Camerota il 1° maggio del 1854) sia le origini della famiglia, sia e soprattutto gli anni spensierati nei quali la stessa viveva ancora nel Cilento.
Furono proprio tali racconti che, molto tempo dopo, avrebbero indotto lo scrittore italiano a spingersi oltre Oceano, volendo esaudire il grande desiderio di visitare sia l’Italia che il lontanissimo Cilento. Non solo, ma nel 1964, l’ormai collaudato scrittore avrebbe dato alle stampe il romanzo che più di altri lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo, “Los fuegos de San telmo” (“I Fuochi di Sant’Elmo”), un libro strepitoso che avrebbe reso celebre la sperduta Marina di Camerota, allora certamente non ancora conosciuta come una delle perle del turismo estivo.
Ci soffermiamo un attimo su tale libro onde evidenziare che esso è sia un romanzo che un’autobiografia dell’autore, ma anche un vero e proprio reportage di quello che potremmo definire un “viaggio nella memoria e nella nostalgia”. Il libro “I fuochi di Sant’Elmo” fu, in realtà, la saga di un giovane uruguaiano di madre italiana che nei primi anni ’50 ebbe modo di visitare sia Marina di Camerota che altri paesi del Cilento, alla ricerca del passato e, soprattutto, delle radici familiari.
Dal prozio Domenico, così come dagli altri parenti e dalla stessa cospicua Comunità degli emigrati Cilentani di Montevideo, il giovane aveva sentito a lungo parlare di quei luoghi, luoghi che lo stesso Domenico aveva dipinto con un mal celato carico di nostalgia, richiamando alla mente del giovane i miti e la bellezza di una Terra meravigliosa. E fu così che un giorno il giovane decise di venire in Italia, volendo verificare quanto di quei favolosi racconti fosse effettivamente sopravvissuto al tempo, ma soprattutto per rinsaldare le radici con una Terra che considerava a quel punto anche sua.
Certamente non fu cosa facile, anche perché José Pedro Díaz D’Onofrio non era un “americano qualunque”, un osservatore con gli occhi e i sentimenti di un estraneo, chiamato a giudicare una realtà immobile e per certi versi ancora primordiale, come era allora il Cilento post bellico, quindi difficile da capire e da accettare. E fu proprio su questa amara “scoperta” del viaggiatore José che si gioca la parte migliore del romanzo, un’opera che nella sola lingua originale ha avuto finora otto edizioni, nutrendo un vastissimo successo di pubblico e di critica. Fra le ristampe ricordiamo quella del 1997, curata dalla coraggiosa Casa Editrice Galzerano di Casalvelino Scalo, ristampa che più di altre commosse emotivamente lo 2 scrittore, soprattutto se pensiamo che, per celebrare la nuova edizione in italiano, fu ricevuto e onorato per le strade di Marina di Camerota, ove Don José tornò per l’ultima volta.
Ma in fondo, ci si chiede, chi è stato Josè Pedro Díaz D’Onofrio? Narratore, saggista, professore, critico letterario, giornalista ed editore, José Pedro Díaz D’Onofrio viene, innanzitutto, ricordato per essere stato uno dei membri della “Generation of 45”, il celebre movimento intellettuale e letterario uruguaiano composto, fra gli altri, da Carlos Maggi, Manuel Flores Mora, Ángel Rama, Emir Rodríguez Monegal, Idea Vilariño, Carlos Real de Azúa, Carlos Martínez Moreno, Mario Arregui, Mauricio Muller, Amanda Berenguer (moglie dello stesso José), Tola Invernizzi, Mario Benedetti, Ida Vitale, Líber Falco, Juan Cunha e Juan Carlos Onetti, tanto per citare i più noti.
Di questa appartenenza Egli ci ha lasciato una vivida testimonianza nel “Diario de Josè Pedro Díaz”, pubblicato postumo (2011) dalla Biblioteca Nazionale dell’Uruguay. Sebbene non sarà ricordato principalmente per i suoi versi, José Pedro Díaz D’Onofrio s’affacciò al mondo della scrittura come poeta, dando alle stampe “Canto plena”, nel 1939 e “Canto plena II”, nel 1940. Ad onor del vero, il suo amore per la poesia non venne mai meno, tanto da essere sostenuto attraverso lo studio di essa per tutta la vita. Pur praticando, in maniera versatile varie pratiche e generi letterari, la sua personalità intellettuale fu arricchita da un’eccezionale carriera accademica e dalla sua fedeltà alla scrittura narrativa.
Il Díaz fu, infatti, Professore di Lettere Francesi alla Facoltà di Lettere, ma anche direttore del Dipartimento di Filologia Moderna e Professore di Didattica presso il celebre “Istituto dei Professori Artigas”. Ancora oggi molti dei suoi ex allievi ricordano il carisma con il quale teneva le sue lezioni su Stendhal, Nerval, Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij, mentre altri rimasero affascinati dalle sue conferenze e dagli articoli su Supervielle, Lautréamont, il suo omonimo Bellán, Rodó, Feliserto Hernández, Proust, i suoi libri su Balzac, Bécquer, Felisberto e Onetti. Rimosso dall’insegnamento nel periodo della dittatura, lo scrittore fu costretto a sopravvivere grazie alla conduzione di una piccola Casa editrice a livello di tipografia, attività che esercitò assieme alla moglie, la celebre poetessa Amanda Berenguer, sua coetanea (1921-2010), che aveva sposato nel 1944.
Nella loro tipografia – è doveroso ricordarlo – José Díaz e Amanda Berenguer stamparono a mano i loro fogli di poesie e quelli di poeti ammirati come Baudelaire e Supervielle, pubblicandoli sotto il sigillo de “La Galatea”. Negli anni Sessanta Díaz fondò, insieme a Ángel e Germán Rama, la casa editrice “ARCA”, mentre nello stesso frangente storico, assieme a Carlos Maggi e Rubén Castillo, avrebbe dato vita a “El Club del Libro”. Sempre come editore, il Díaz ha pubblicato 3 un gran numero di studi letterari dedicati ad altri grandi scrittori, come Julio Herrera y Reissig, Honoré de Balzac e Gustavo Adolfo Bécquer.
Non solo, ma era nota la sua specializzazione per autori come Felisberto Hernández e Juan Carlos Onetti. A tal riguardo ricordiamo i suoi contributi dal titolo: “Gustavo Adolfo Bécquer: vita e poesia” (1953), “Felisberto Hernández: una coscienza che rifiuta l’esistenza” (1965), “Lo spettacolo immaginario I Felisberto e II Onetti” (1986 e 1989), “Romanzo e società” (1991) e “Felisberto Hernández, il suo vita e lavoro” (2000). Come scrittore, oltre ad un vero e proprio classico della letteratura commemorativa uruguaiana, il già citato “Los fuegos de San Telmo” (1964), compose altri importanti romanzi, quali, ad esempio, “Parti del naufragio” (1969) e il più recente a noi “I lucernari e gli orologi” (2001).
Come giornalista ricordiamo la sua collaborazione alla rivista letteraria “Marcha”, così come la direzione delle pagine letterarie del celebre “Correo de los Febrero”. Collaborò, poi, con la rivista “Jaque “ e ad altri media nazionali e stranieri. Fondò e diresse, infine, la rivista “Maldoror “. Sulla sua vita e sulla sua attività professionale è quasi unanime il giudizio da parte del mondo della cultura. Il Díaz è stato un protagonista della grande letteratura, il vanto dell’Uruguay moderno, un vero e proprio “homme de lettres”, il possessore di una vasta cultura universale, tanto che la stessa Accademia Nazionale di Lettere dell’Uruguay lo aveva proposto per il premio “Menéndez Pelayo”.
José Pedro Díaz D’Onofrio si spense, a 85 anni, nella sua amata Montevideo il 3 luglio del 2006, pianto dal Paese intero, oltre naturalmente che dalla moglie Amanda, che lo avrebbe seguito nel 2010, e dal figlio, Álvaro Díaz Berenguer, oggi affermato medico e saggista, grazie al quale il prezioso archivio dei suoi genitori e la prestigiosa biblioteca di Don José fanno oggi parte della Biblioteca Nazionale di Montevideo. Concludiamo la narrazione con la speranza che un giorno non molto lontano a noi il Cilento decida di onorare Don José, dedicandogli se non una via cittadina almeno un luogo di cultura (scuola, teatro, biblioteca, ecc.), quale traccia indelebile di quanto il sangue Cilentano abbia avuto considerevole importanza nella vita di un Uomo che così tanto ha saputo dare alla conoscenza e al sapere.