17 gennaio: Sant’Antonio Abate o Sant’Antonio “il Grande”, il più illustre eremita della storia della Chiesa

Largamente festeggiato in tutta Italia, da Nord a Sud, ed anche in molte comunità cilentane.

Di Concepita Sica

Sant’Antonio Abate è considerato il fondatore del monachesimo cristiano ed è anche il primo abate. È il protettore dei macellai, dei salumieri, dei contadini e degli allevatori, degli animali domestici ed è invocato contro l’herpes zoster (comunemente detto “fuoco di Sant’Antonio”).

La storia

La vita di Sant’Antonio Abate è raccontata da un suo discepolo, Sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, in un’opera “Vita Antonii” (Vita di Antonio), scritta per far conoscere a tutti l’esempio di quest’uomo straordinario.

Sant’Antonio Abate nasce nella città di Coma, oggi Qumans, in Egitto, il 12 gennaio 251, da agiati agricoltori cristiani. Tra i diciotto e i vent’anni rimane orfano di entrambi i genitori e così il ragazzo si dedica alla cura del patrimonio e della sorella.

Un giorno mentre si reca in chiesa e pensa al coraggio degli Apostoli di lasciare tutto e di seguire Gesù e di coloro che vendevano proprietà e sostanze e deponevano il ricavato ai piedi degli Apostoli, e ascoltando il brano del Vangelo in cui il Signore dice al giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!” (Mt 19,21), prende una decisione. Uscito dalla Chiesa dona alla gente del villaggio quanto aveva ricevuto in eredità, affida la sorella a delle vergini fedeli perché la facciano crescere nella verginità, e poi si dedica alla vita ascetica.

Inizialmente vive nei dintorni del villaggio, come già facevano altri anacoreti, vivendo nei deserti attorno alla città, in preghiera, povertà e castità; talvolta si reca in visita da costoro per poter perseverare sulla via della virtù.

Si racconta che Sant’Antonio Abate in una visione scorge un eremita impegnato a pregare e ad intrecciare una corda e deduce che la sua giornata si deve dividere tra preghiera e lavoro (sono forse qui le fondamenta del motto del monachesimo benedettino: “Ora et labora”).

Così egli lavora con le proprie mani e distribuisce ai poveri il ricavato e prega tantissimo; infatti conosce a memoria le Sacre Scritture, ma è anche molto tormentato da tentazioni fortissime.

Coperto di un abito rude egli va ad abitare in una tomba scavata nella roccia dove viene ripetutamente aggredito e percosso dal demonio. Raccolto senza sensi da alcune persone, che erano andate a portargli del cibo, viene portato in chiesa dove col tempo riprende le forze.

Nel 285 per cercare ulteriore purificazione si sposta sul monte Pispir, nei pressi del Mar Rosso, presso una fortezza romana abbandonata, in cui è presente una sorgente d’acqua e lì, vivendo in una grotta e nutrendosi solo con il pane che gli viene calato due volte l’anno, rimane per circa vent’anni.

Un giorno si recano da lui alcuni amici che vanno a cercarlo, lo liberano dal suo rifugio e lo costringono ad uscire: e così il Santo offre consigli, consolazione, aiuto ai bisognosi, si dedica alla cura dei sofferenti operando guarigioni e liberazioni dal demonio. Presto molti si uniscono a lui per imitare il suo stile di vita e questi discepoli si dividono in due comunità che vivono a oriente e a occidente del fiume Nilo. Questi “Padri del deserto” vivono in grotte o anfratti, indirizzati da un eremita anziano e sotto la guida spirituale di Sant’Antonio Abate che contribuisce molto alla fioritura dell’anacoretismo.

Nel 311, durante la persecuzione di Massimino Daia, si reca ad Alessandria per servire ed incoraggiare i cristiani perseguitati. Desideroso del martirio, viene invece risparmiato per il rispetto ed il timore che i romani nutrono nei suoi riguardi.

Sostiene con la sua presenza ed i suoi consigli l’amico Sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, impegnato nella lotta contro l’eresia di Ario.

Attratti dalla fama di santità, in tanti vanno da lui, pare che persino l’imperatore Costantino ed i suoi figli l’abbiano cercato per avere consigli.

Così per sfuggire alla crescente popolarità Sant’Antonio Abate si ritira in un luogo ancora più isolato, nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto, dove coltiva un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti si recano in visita da lui. Seppellisce il corpo di San Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone (per questo è ritenuto patrono dei seppellitori).

Negli ultimi anni della sua vita viene accudito da due monaci.

Muore il 17 gennaio 356, all’età di 105 anni.

Il culto

Nel 561 vien scoperto il luogo in cui Sant’Antonio Abate era stato sepolto e così le sue reliquie iniziano a viaggiare: da Alessandria vengono portate a Costantinopoli e nell’XI secolo arrivano in Francia, a Motte-Saint-Didier, deve viene costruita una chiesa in suo onore.

Folle di malati affluiscono in questo luogo, soprattutto persone affette da ergotismo canceroso un morbo causato dall’avvelenamento per un fungo presente nella segale, noto sin dall’antichità come “ignis sacer” (fuoco sacro) a motivo del bruciore che provocava.

Per ospitar i tanti ammalati che giungono sul posto viene costruito un ospedale e viene istituita una confraternita di religiosi, gli “Antoniani”. Il villaggio viene poi denominato “Saint-Antoine de Viennois”.

Il papa accorda a questi religiosi il privilegio di allevare i maiali per il sostentamento loro, della comunità e per curare con il grasso di questi animali le piaghe dei malati di ergotismo. I maialini circolano liberamente e se recano al collo una campanella di riconoscimento nessuno li tocca (per questo motivo nella tradizione popolare la figura di Sant’Antonio è sempre accompagnata dall’immagine di un maiale/cinghiale ed è considerato patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici o da stalla).

Nell’iconografia Sant’Antonio è accompagnato da numerosi elementi simbolici. 

In genere è raffigurato come un anziano monaco canuto e dalla lunga barba bianca (simboli di longevità), in compagnia di un maialino (di cui si è detto), con in mano un bastone, un evidente richiamo all’aiuto che il Santo offre a zoppi e infermi, oppure è un rimando ad un pastorale, ad indicare la sua funzione di padre nelle comunità (d’altronde il termine “abate” ed “abbazia” derivano dall’ebraico “Abbà” che vuol dire “padre” e che indica la funzione di guida di un monaco nell’ambito di una comunità e che quindi Sant’Antonio può essere considerato il primo abate del cristianesimo).

Talvolta il bastone che reca il Santo presenta all’estremità la forma di una T ovvero di un “Tau”, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico con una chiara allusione ad un contenuto escatologico e ad un episodio della vita di Sant’Antonio Abate riferito dalla tradizione popolare. Il “Tau” potrebbe essere un rimando alle realtà ultime escatologiche in ordine al richiamo espresso nel libro del Siracide: “In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato” (Sir 7,36; cfr. anche Sir 28,6).

Questo segno rimanda pure ad un episodio tramandato in cui si racconta che Sant’Antonio Abate un giorno si reca all’inferno per sottrarre alcune anime al loro triste destino. Mentre il suo maialino crea scompiglio fra i demoni, il Santo accende al fuoco infernale il suo bastone a forma di “tau”, che richiama la croce, e divenuto intoccabile porta fuori le anime, il maialino ed anche il fuoco che continua ad ardere in una catasta di legna (in ricordo di questo avvenimento il 17 gennaio in diverse comunità è tradizione accendere i falò, “focari”, “focare”).

Un altro simbolo che rimanda ad entrambi i significati (ovvero le realtà ultime ed il fuoco) è un “tau” di colore rosso raffigurato sull’abito di Sant’Antonio Abate e che i monaci cosiddetti “Antoniani” (detti anche “Cavalieri dei tau”) scelgono come loro simbolo identificativo e che portano impresso sul loro abito.

In alcune opere d’arte il Santo è raffigurato in atteggiamento di fortezza mentre è circondato da forti tentazioni che in talune raffigurazioni sono donne avvenenti ed in altre hanno sembianze mostruose.

Altri simboli presenti nelle immagini sono la mitra (se rappresentato con gli abiti abaziali); il libro delle Sacre Scritture; il fuoco che richiama la potenza del Santo sui malati del “fuoco di Sant’Antonio”; la corona del Rosario per indicare la sua fervente dedizione alla preghiera.

In alcune immagini è presente il serpente che può richiamare la sua costante lotta contro il demonio oppure può essere un riferimento alla presenza dei serpenti nei luoghi della sua dimora e dai quali si è dovuto proteggere.

Nel giorno della festa liturgica di Sant’Antonio Abate, ovvero il 17 gennaio, in molte comunità vengono benedetti gli animali domestici e talvolta anche le stalle, per ricordare il patrocinio del Santo sugli animali.

Detti della tradizione popolare 

Tradizionalmente i festeggiamenti per il Carnevale si facevano iniziare a partire da questa data. Infatti è abbastanza diffuso un detto sul Santo che viene dalla tradizione pugliese, precisamente da Manfredonia, dove l’inizio del Carnevale è festeggiato con grandeimponenza: “Sant’Andunjemasckere e sune” (“Sant’Antonio, maschere e suoni”).

Un detto che proviene dalla civiltà contadina è quello che rimanda alla festa liturgica in onore di Sant’Antonio come tempo ultimo per l’uccisione del maiale: “A Sant’Anduono ogni puorco è buono”.

In alcune località si attribuiva a Sant’Antonio Abate il dono di ricevere i denti nuovi quando si perdevano quelli da latte che venivano messi sotto il cuscino recitando una filastrocca: “Sant’Antonio, maschere e suonetecchete ‘u viecchio e damme ‘u nuovo”.

La festa

Nella storia della Chiesa la figura di Sant’Antonio è stata da sempre un indiscutibile punto di riferimento: per la vita monastica come esempio da imitare e per la vita di fede come esempio di totale e perseverante fedeltà a Dio.

Al suo nome infatti spesso si accompagna l’affermazione “il Grande” per indicare la portata della sua persona per tutti i cristiani. Lo stesso Sant’Antonio da Padova cambia il suo nome di battesimo, Ferdinando, in quello di Antonio col proposito di voler imitare lo stile di vita e le virtù di Sant’Antonio Abate. Nell’Italia meridionale, per distinguere i due santi c’è l’usanza di chiamare “Sant’Antuono” il Santo Abate.

Sono innumerevoli le città ed i paesi italiani posti sotto il patrocinio di Sant’Antonio Abate. È festeggiato anche nelle comunità che non sono sotto il suo patrocinio.

“Qual fiore solitario

nel tuo paterno esilio

solo crescesti all’auro

del rubicondo Nilo,

e pei deserti calli

di sterminati valli

ai molti, agli ermi ruderi

lieto volasti un dì”

 Così i devoti del Santo (come i fedeli di Vibonati nello specifico) esprimono la speranza che il legame terreno con l’amato Santo possa trovare continuità nella patria celeste, come emerge dalle parole dell’Inno che risuonano nel fervente ed accorato canto:

Or che dall’alto Empireo

il tuo poter si spiega

Deh! Dal tuo trono fulgido

guarda i tuoi figli e prega!

Prega che un dì nel Cielo,

deposto il mortal velo

il tuo festante popolo

venga a regnar con Te!”.

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