Recentemente, sul portale storico www.giornidistoria.it ho pubblicato un saggio dedicato a tre Sacerdoti di Castellabate, i Florio (due erano fratelli e l’altro un cugino), i quali, a partire dal 1864 si trasferirono nello stato del Rio Grande do Sul, non certo per motivi “occupazionali”, bensì per dare luogo a quel processo di evangelizzazione e civilizzazione, voluto dall’Imperatore del Brasile, Don Pedro II, di alcune aree dell’interno, popolate da varie tribù di nativi: tribù che ben presto avrebbero visto erigere, al posto dei propri villaggi, nuovi paesi e città.
Pur essendo, in effetti, i Sacerdoti Cristiani i veri precursori dell’emigrazione italiana in Brasile, non furono certo i tre Florio i primi cilentani che solcarono l’Oceano Atlantico per raggiungere l’America del Sud, con particolare riguardo al Brasile, così come avevo accennato alcune settimane addietro, quando proposi ai nostri lettori un contributo dedicato alla colonia cilentana in Argentina.
Già in quell’occasione anticipai, infatti, che avrei preparato un nuovo saggio storico, dedicato a questo aspetto e ciò anche in relazione al fatto che per molti anni è stata raccontata la sola storia, per quanto – bisogna ammetterlo – affascinante, del Conte Francesco Matarazzo, grande uomo, imprenditore e filantropo al quale sia l’Italia che il Brasile debbono moltissimo, considerato a torto come il pioniere dei cilentani in Brasile. In realtà – e questo gli storici dell’emigrazione lo sanno benissimo – non fu certo il Matarazzo il primo cilentano che giunse in Brasile nella seconda metà dell’Ottocento, essendo già allora molto numerosa la presenza dei nostri compatrioti in quel vastissimo Paese.
Ebbene, fra i tanti nostri compatrioti che lasciarono le proprie case per tentare la sorte in Sud America vi fu anche Francesco Grandino, un giovane di Castellabate, grazie al quale lo stesso Matarazzo si sarebbe convinto – essendo rimasto affascinato dai suoi racconti – ad intraprendere, nel 1881, la via dell’emigrazione, accolto a Sorocaba proprio dal Grandino, così come ricordò lo storico Ronaldo Costa Cauto nel suo straordinario libro “Matarazzo. A Travessia” (anno 2004, pp. 147-148).
Procediamo per ordine. Francesco Grandino nacque a Castellabate il 3 marzo del 1849, primogenito di Luigi e di Fortunata Guariglia, una modesta famiglia di quel borgo costretta a sopravvivere con i pochi spiccioli ricavati dalla riparazione e dalla lavorazione di calzature, visto che Luigi era uno dei pochi e bravi calzolai di Castellabate.
I coniugi Grandino, dopo Francesco misero al mondo anche Costabile, nato il 6 gennaio 1855, Giuseppe, nato l’11 novembre del 1861 e, molto probabilmente, anche alcune femmine. Mentre tutti e tre i maschi furono “costretti” a seguire le orme paterne, le femmine, come da tradizione, dovettero attendere l’età da marito, sperando sempre nella buona sorte. Francesco, come era consuetudine a quei tempi, si sposò ancor giovanissimo, volendo alleviare la ancor precaria situazione economica della famiglia.
E lo fece con la signorina Carmina Di Grazia, molto probabilmente molto più giovane di lui, il 28 luglio del 1870. Francesco aveva da pochi mesi compiuto la maggiore età e certamente sperava di rimanere tra la sua gente per il resto della vita. Ma ciò non fu possibile in quanto, proprio in quel frangente storico, a pochi mesi dalla liberazione di Roma, la situazione economica del Paese in generale, e del Meridione in particolare, era particolarmente allarmante.
E lo era ancor di più per la sua giovane famiglia, la quale, l’8 maggio del ’71, si era arricchita con il primogenito, Luigi. Furono proprio i primi anni ’70 dell’Ottocento gli anni in cui si verificò la più grande emigrazione di massa di italiani verso le Americhe (Nord, Centro e Sud), attratti sia dalle allettanti prospettive d’impiego che, come nel caso dell’Argentina, del Brasile e dell’Uruguay, delle facilitazioni garantite e dagli accordi firmati da quei Paesi, desiderosi di ricevere mano d’opera a buon prezzo.
Certamente non furono sempre “rose e fiori”, anzi il più delle volte la scelta migratoria si dimostrò molto più dura di quanto si potesse allora immaginare, ma certamente essa garantì a molti dei nostri conterranei non solo di sopravvivere, ma di farlo anche decorosamente, potendo sfruttare – come avvenne per il nostro Francesco Grandino, così come per lo stesso Matarazzo – le proprie ambizioni e le proprie professionalità. Francesco Grandino lasciò dunque Castellabate nel corso del 1872, molto probabilmente dopo aver seppellito il piccolo Luigi, venuto a mancare il 19 di settembre.
Sul fine dell’anno lo troviamo esercitare il mestiere di “sapateiro” (calzolaio) in quel di Sorocaba, un popoloso Comune facente parte dello Stato di San Paolo, già allora crocevia degli scambi commerciali che si snodavano, tra Nord e Sud, lungo la strada delle spedizioni minerarie e forestali, ovvero dell’abbondante coltivazione del cotone. Il 1872 – lo ricordiamo – era stato anche l’anno dell’apertura della più importante linea ferroviaria dello Stato, la celebre “Estrada de ferro sorocabana”, circostanza che avrebbe indotto i cronisti dell’epoca a definire Sorocaba col titolo di “Manchester Paulista”, per via della sua nuova vocazione industriale. In città vi erano già allora molti italiani, e forse anche qualche cilentano.
Qualche tempo dopo, in ogni caso, lo avrebbero raggiunto a Sorocaba anche il fratello Costabile, ribattezzato localmente “Gustavo”, il quale si diede ad una propria attività commerciale. Francesco, nonostante le notevoli distanze chilometriche che separavano i due Stati, fece più volte ritorno a Castellabate, ove era rimasta a vivere – almeno in un primo tempo – la moglie Carmina.
Lo fece sicuramente nell’estate del 1874, allorquando la donna gli darà un secondo figlio, battezzato nuovamente Luigi, venuto al mondo il 17 di agosto. Tornato, ancora da solo, a Sorocaba, il nostro Francesco fu una persona che si diede da fare onde migliorare la situazione economica della propria famiglia, che gradualmente iniziò a trasferire in Brasile. E lo avrebbe fatto anche in seguito, nonostante la grave sciagura che lo colpì il 24 novembre del 1880. Mi riferisco alla tragedia del piroscafo francese “Oncle Joseph”, che verso le tre del mattino di quel giorno fu speronato dal bastimento italiano “Ortigia”, nelle acque fra l’isola di Tino e la Palmaria, nel Golfo di La Spezia.
Le cronache del tempo di ricordano, in particolare, che la nave italiana (sembrerebbe a causa dell’inesistenza di una idonea illuminazione da parte della nave francese), colpì violentemente la fiancata dello “Oncle Joseph”, squarciandola in due tronconi: fatto, questo, che ne determinò ovviamente l’affondamento in appena otto minuti. Il piroscafo “Oncle Joseph” si portò appresso ben 229 passeggeri e 10 membri dell’equipaggio. Fra i passeggeri scomparsi in mare vi furono anche sei emigranti di Castellabate (Francesco Paolo Mignone, Angela Cirillo, Giuseppe e Luigi Grandino e Antonio Matarazzo), mentre fra i pochi sopravvissuti (35 emigranti e 23 marinai dell’equipaggio) ve ne fu uno solo di Castellabate, tale Vincenzo Maurano, di anni 61. La nave francese, affondata dalla “Ortigia”, era di proprietà della Compagnia “Valery” e si trovava agli ordini del Capitano Lacombe. Aveva iniziato il suo lunghissimo viaggio dal porto di Napoli, essendo diretta in Argentina, due giorni prima della sciagura. Dopo brevi soste avrebbe dovuto fare rotta a Genova, luogo di carico di altre “povere vite” destinate all’emigrazione nelle lontanissime Americhe. Il piroscafo “Oncle Joseph” trasportava, al momento del naufragio, 264 passeggeri e oltre una trentina di uomini d’equipaggio, ma anche un carico di circa 800 tonnellate di mercanzie. Gli emigranti erano quasi del tutto meridionali, con un alto indice di provenienza dal Molise e dalla Calabria, ma ovviamente anche con una folta rappresentanza di uomini, donne, vecchi e bambini provenienti dalla Provincia di Salerno, Cilento compreso. Ripresosi dal dolore provato per la morte del figlio Luigi e del fratello Giuseppe, Francesco Grandino riprese la sua missione.
Ben presto il duro lavoro di calzolaio gli consentì di espandere l’attività anche nel campo dell’artigianato, adattandosi anche a fare il tappezziere, anche se quello della fabbricazione di calzature rimase la professione per eccellenza. Lo storico Costa Couto ci conferma che già nel 1881, a quasi dieci anni dal suo arrivo in Brasile, il Grandino era un uomo ben in vista nell’ambito della colonia italiana di Sorocaba, tanto da “ospitare” l’amico Matarazzo, del quale era anche padrino, nei primi tempi che questi si trasferì in città, dandogli così una mano anche ad aprire, nel maggio del 1882, un primo emporio, attraverso il quale il futuro capitalista si mise a commerciare alimenti di prima necessità, fra i quali farine, legumi, carni e, soprattutto, il famoso strutto (la cilentana sugna) che tanta fortuna gli avrebbe apportato, dopo averne dimostrato l’utilità per la conservazione delle carni. Non solo, ma dopo il 9 giugno del 1884, allorquando ottenne la “naturalizzazione” da parte dello Stato di San Paolo, il ribattezzato Don Francisco Grandino, oltre che cittadino a tutti gli effetti di Sorocaba divenne anche membro del locale Consiglio Municipale, così come socio fondatore e sostenitore delle più importanti Associazioni fra italiani, come lo era la “Società Italiana di Beneficenza e di Mutuo Soccorso” (poi “Circolo Italiano”), fondata nel 1886 assieme ai conterranei, Francesco Matarazzo e Giuseppe Maurano.
Nel 1890 si registrò il suo primo passo nel mondo dell’imprenditoria, avendo rilevato dal fratello Costabile (Gustavo) una “Casa commerciale” che il germano aveva portato al quasi fallimento. Il 12 novembre del 1892, come ci confermano le ricerche compiute dal Direttore dell’Archivio Storico del Comune di Castellabate, Emilio Guida, Francesco Grandino ottenne un nuovo Passaporto, segno evidente del fatto che l’uomo aveva voluto mantenere stretti i legami con la Madrepatria, dalla quale, nel frattempo, partivano a frotte tanti suoi compaesani. La voglia di fare e lo spirito di iniziativa di quell’ingegnoso “uomo del Sud” gli consentirono, di lì a qualche anno, di trasformare il suo modesto negozietto in una vera e propria fabbrica di scarpe, presso la quale avrebbe occupato non pochi dei suoi paesani, oltre che i fratelli più piccoli e i suoi stessi figli. La celebrità che accompagnò sia l’uomo che il suo progresso lavorativo gli valsero, nel 1896, un importante riferimento su di una celebre rivista dell’epoca, “O 15 de Noviembro”, la quale il 9 luglio di quell’anno (cfr. pag. 37), nel dare comunicazione ai lettori dell’installazione della fabbrica di calzature movimentata a vapore, aggiunse: <<Dalla nostra parte formuliamo le congratulazioni al nostro amico Grandino e a Sorocaba per il fatto che la nostra città ha meritato di essere definita la Manchester dello Stato di San Paolo>>.
La fabbrica dei Grandino, collocata proprio nel centro della città, crebbe al punto tale da consentire all’ormai maturo imprenditore di Castellabate di disporre di una pregevole casa di proprietà, una delle più in vista del quartiere Largos di Sorocaba, tanto da essere citata persino in un testo d’urbanistica (Cfr. Rogerio Lopes Pinheiro de Carvalho, Fisionomia da Cidade. Cotidiano e Transformações Urbanas – 1890 – 1943, San Paolo del Brasile, 2010, p. 8). Sulla sua storia fu realizzato un interessante articolo da parte di Antonio F. Gaspar, tal titolo “Fabrica de Calçados Francisco Grandino” (in <<Cruzeiro do Sul>>, 6 febbraio 1969). La fabbrica, che in alcuni testi viene citata anche col titolo di “Fabrica de Calçados Francisco Grandini & C”, fu ceduta dall’industriale di Castellabate nel corso del 1903, sembrerebbe a causa del rimorso provato nell’assistere al grave incidente di lavoro che portò via la mano sinistra all’adorata figlia, Emilia Natalina. A quel punto Don Francisco Grandino, che già in passato aveva ricoperto incarichi pubblici, assunse il delicato incarico di Subdelegato di Polizia di Sorocaba, con il grado di Capitano.
Francesco Grandino, passato, quindi, alla storia col titolo di “Capitano Grandino”, si spense a Sorocaba in una non meglio nota data del 1912, appena sessantatreenne. In suo onore gli fu dedicata una delle principali arterie della città, la movimentata Rua Capitão Grandino.
La sua missione fu portata avanti dai figli Gustavo e Francisco (quest’ultimo avrebbe anche combattuto durante le guerra civile del 1932), così come dai nipoti ed eredi che ancora oggi sono presenti nello Stato di San Paolo, sia con attività imprenditoriali sia con l’esercizio di importati arti e professioni.