Nel 1522, il Re di Napoli era l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V° d’Asburgo (I° Re di Spagna, II° Re d’Ungheria).
Nello stesso anno divenne Principe di Salerno, Ferrante (Ferdinando) Sanseverino, figlio di Roberto Sanseverino II° e di Marina d’Aragona, nonché nipote di Re Ferdinando il Cattolico. Erano gli anni in cui divampava lo scontro tra Francesco I° di Francia e l’Imperatore Carlo V°, per il predominio sulla penisola italica, ed il giovane Ferrante, a fronte dei tentativi francesi d’invadere il Regno di Napoli nel 1527-28, restò fedele agli spagnoli. Nel Cilento, oltre ai danni provocati dalla guerra franco-spagnola, si aggiunse la pressione fiscale instaurata dal Viceré di Napoli “Don Pedro de Toledo” e l’intensificarsi degli assalti barbareschi. Tra i più cruenti e devastanti quello del 1544, quando il Pirata Khayr al-Din Barbarossa (Ariadeno Barbarossa) assalì, devastandoli ed impoverendoli, Agropoli, Policastro, Bosco, San Giovanni a Piro, Santa Marina, Torre Orsaia e Roccagloriosa.
Nel 1551, Ferrante Sanseverino entrò in contrasto con il Viceré di Napoli “Don Pedro de Toledo”, che lo accusò di ribellione e di eresia. In seguito, lo incolpò di tramare con Re Enrico II° di Francia, succeduto al padre Francesco I°, e con Dragut (Turghud Alì), ammiraglio e corsaro ottomano, successore di Khayr al-Din Barbarossa morto nel 1546, per diventare Re di Napoli.
Così, l’Imperatore Carlo V° gli ordinò di presentarsi al suo cospetto. Di fronte al rifiuto, nell’aprile 1552 lo proclamò ribelle, sequestrandone i Feudi e facendone sancire la condanna a morte dal Consiglio collaterale. Ferrante Sanseverino si rifugiò in Francia, presso la corte del Re, dove morì in solitudine a 61 anni. L’11 febbraio 1553, il Feudo di Agropoli fu venduto all’asta ed acquistato per 5000 ducati da Giovanni d’Ayerbo d’Aragona, con l’obbligo di versare annualmente 10 once d’oro al Vescovo di Capaccio, Girolamo Verallo.
Nel Meridione scoppiarono ben cinque carestie, negli anni: 1560 -1564 -1570 -1584 -1591. Le cause erano da attribuirsi alla guerra franco-spagnola, ai continui assalti barbareschi, ai cattivi raccolti nei campi per annate con condizioni climatiche avverse e al diffondersi di malattie infettive. Nel caso del Cilento, un’analisi più attenta della situazione storica, ci indica un altro fattore. La caduta del Principe di Salerno Ferrante Sanseverino e la conseguente vendita all’asta dei suoi beni confiscati, cambiò lo scenario giuridico e politico della Baronia del Cilento. Dal 1552, il Cilento, per interessi politici ed economici, fu smembrato da Carlo V° in una miriade di Feudi. Spesso, acquistati ad un prezzo esoso da benestanti in cerca di titoli nobiliari. I nuovi feudatari, non vivendo nel Feudo, affidavano la gestione ad amministratori di loro fiducia privi di scrupoli, che sfruttavano al massimo, anche con la violenza, le risorse presenti, affamando i contadini. Queste azioni violente e repressive, portarono ad alterare quegli equilibri sociali che si erano ottenuti, nel corso dei secoli precedenti, nella Baronia del Cilento. Le conseguenze di queste azioni nefande, portarono all’esaurimento delle scorte alimentari, alla distruzione dei raccolti e alla morte degli animali, per mancanza di cibo ed acqua.
Nel 1564, il Feudo di Agropoli apparteneva ancora alla famiglia D’Ayerbo ed era amministrata da Giordano D’Ayerbo, che ricopriva anche la carica di Portolano (guardiano del porto incaricato di sovrintendere al traffico delle merci e all’applicazione dei dazi). La popolazione di Agropoli variava dai 400 ai 500 abitanti, parte abitavano nel borgo e parte nelle campagne. Quando scoppiò la carestia, i prezzi dei beni di prima necessità salirono vertiginosamente, impedendone l’acquisto alle famiglie più povere. Gli agropolesi, per combattere la fame, iniziarono a consumare quel poco che si trovava ancora a buon prezzo o nelle campagne: pesce fresco e sotto sale; gli ultimi animali rimasti vivi; pani di riso (impastato forse con un po’ d’orzo, di segale e di leguminose); indigeste erbe di prato e radici tenere d’albero, condite con il sale.
Nel XV secolo erano stati istituiti i “Monti Frumentari”, gestiti dai Vescovi. Le finalità erano di distribuire ai contadini poveri, il grano e l’orzo per la semina, con obbligo di restituzione. Durante le carestie, parte delle riserve venivano utilizzate per sfamare la popolazione povera.
Ad Agropoli, in quell’anno, i locali di proprietà del Vescovo di Capaccio, Paolo Emilio Verallo, adibiti a Monti Frumentari, erano ancora pieni di granaglie. Alcune famiglie di contadini agropolesi, ormai allo stremo delle forze, senza denari e senza cibo, nel mese di Novembre, in una giornata grigia e fredda, armatesi di forconi, bastoni e pietre, partirono dalle campagne ed irruppero impetuosamente nel borgo, trascinando nella rivolta anche i residenti. Dai 200 ai 300 di essi, disperati, affamati ed inferociti, si recarono nella piazza dei Santi Pietro e Paolo ed assaltarono i depositi del Vescovo. Lo storico Giuseppe Volpi così racconta l’assalto ai granai: “…spinti dalla fame, che allora era in tutto il Regno, entrarono impetuosamente in Agropoli e rotte le porte dei granai del Vescovo, misero bruttamente a sacco sei cento tummola di frumento”. Nel 1725, il Volpi acquisì la notizia da un libro, che documentava la visita ai granai di Agropoli effettuata, subito dopo l’assalto, dal Vescovo Verallo. Libro, a quel tempo, depositato nell’Archivio Vescovile di Sala Consilina.
Possiamo immaginare le scene dell’assalto, alle quali parteciparono uomini e donne, anziani e bambini, che spingendosi, gridando, sudando e menandosi, agguantando dei recipienti di fortuna, come sacchi, cappelli e recipienti vari, di corsa e affannosamente, si assicuravano le granaglie da nascondere in casa, per poi ritornare a riempire di nuovo quegli improvvisati recipienti. I pochi militi presenti cercarono di arginare quella massa disperata di agropolesi, ma la fame e la rabbia era tanta, che neanche le spade riuscirono a contenerla e a disperderla. Al termine dell’assalto si contarono i danni. Gli agropolesi, secondo lo storico Giuseppe Volpi avevano prelevato dai magazzini del Vescovo ben 600 tomoli di granaglie. Il tomolo in misura di capacità, per legumi e cereali, varia in base al peso specifico di ogni singolo cereale: un tomolo di grano e’ uguale a 56 Kg.; un tomolo di orzo e’ uguale a 34 Kg.. Siccome non conosciamo quali tipi di granaglie erano presenti nei depositi del Vescovo, non possiamo avere dei dati reali, ma di certo furono prelevati migliaia di chilogrammi di granaglie.
Il Vescovo Paolo Emilio Verallo, sgomento ed impaurito dalla rabbia degli agropolesi, dopo aver effettuato il sopralluogo e l’inventario dei granai, temendo per la sua vita, lasciò di fretta in furia la Diocesi di Capaccio, delegando alla reggenza il vicario generale Domenico Margano.
Bibliografia:
– “Commentari agli Statuti del Cilento” di Giovan Nicola Del Mercato, seconda metà del XVII secolo;
– “Cronologia de’vescovi Pestani ora detti di Capaccio”
Giuseppe Volpi, 1725.
– “Cilento, uomini e vicende” di Pierfrancesco Del Mercato e Antonio Infante. Reggiani Editore, 1980.