Si conclude domani (20 gennaio) la mostra dedicata a José Ortega allestita presso l’auditorium “Cesarino” di Sapri.
In esposizione venti tavole dell’artista spagnolo che compongono l’opera “Segadores”, ispirate alla sofferenza dei lavoratori su campi. La mostra dedicata al Pintor che trascorse gli ultimi anni della sua vita a Bosco, è stata curata dal coordinatore del polo museale di San Giovanni a Piro, l’avvocato Franco Maldonato.
Descrizione dell’opera Segadores, di Franco Maldonato
«In Spagna il cielo in estate è azzurro anche a mezzanotte, ma io dipingo un mietitore che lavora a mezzogiorno sotto un cielo nero: se si guarda il cielo dalla posizione di quell’uomo esausto e angosciato, quel nero è la realtà».
E’ questa la cifra artistica della suite dei ‘segadores’, l’opera alla quale Josè Garcia Ortega attese tra il ’69 e il ’70, esposta per la prima volta in una mostra itinerante (Colonia, Norimberga, Essen, Amburgo, Minden e Krefeld). Ma è almeno dal ’62, durante l’esilio francese, che il pintòr aveva cominciato ad elaborare l’immagine del grano alto sotto un cielo greve e gravante e senza nuvole. E quella delle schiene dei mietitori ricurvi sui campi.
Nel percorso dell’autore, l’opera che qui presentiamo fu concepita dopo El terror, il primo ciclo di xilografie (cui il Maestro si dedicò appena uscito dal carcere) e le incisioni della serie che va sotto il nome di Lotte del popolo spagnolo, ma immediatamente prima del grande ciclo di Dürer, dedicato alla guerra civile spagnola.
I Segadores consolidano, dunque, la determinazione dell’artista a trarre ispirazione dal vero, collocandolo a giusto titolo nell’alveo del ‘realismo sociale’, che informerà l’elaborazione artistica di gran parte del Novecento.
«La fonte della mia ispirazione è la realtà. E’ sempre da questo punto che io inizio»: e di quella realtà, nei Segadores, Ortega non fu solo il narratore ma anche il testimone, avendo lavorato con i suoi mietitori nei campi ove fu costretto a nascondersi durante la clandestinità per sottrarsi alla ricerca della Guardia Civil (tavola 17). Non è l’immaginazione, dunque, ma la testimonianza che alimenta la narrazione e che consente all’autore di scandire i tempi della vita dei suoi falciatori nel tormentato rapporto con la terra, governato dal ciclo lineare della giornata e delle stagioni, come i visitatori potranno vedere nelle tavole 3 (Mañana), 4 (Tarde) e 5 (Noche).
Il paesaggio naturalistico – scarnificato nella sua essenzialità – è quello di una terra che è possibile lavorare solo a prezzo di sete e fame [tavole 14 (Sed) e 15 (Hambre)] e quasi sempre a costo di un eterna prigionia [tavola 18 (Preso), dove le spighe del grano alto diventano le sbarre di una cella di sicurezza], dalla quale è possibile evadere solo attraverso l’emigrazione [tavola 19 (Emigrantes)] o la ribellione [tavola 20 (Rebelion)], non contro la terra ma contro la irredimibile soggezione del lavoro agreste alle leggi degli agrari [tavola 16 (Amo)]. In questa tavola il corpo del padrone è significativamente collocato al di fuori dello spazio confinato costituito dal campo di grano, per segnalarne la estraneità alla terra nonostante il titolo dominicale e stigmatizzarne così l’usurpazione. Con un modulo che si ripeterà soltanto a proposito dei gendarmi della Guardia Civil (tavola 17), anch’essi estranei ai tormenti della classe lavoratrice, nonostante la rivendicata rappresentanza della statualità.
Il paesaggio umano, specularmente, è quello di donne e uomini che ingaggiano quotidianamente una lotta consapevole ma non meno angosciosa contro le asperità della terra e l’incertezza delle stagioni. E che nel piegarsi finiscono per assumere talvolta la stessa incurvatura degli strumenti adoperati [Tavola 1(Cuadrilla), 3 (Mañana), 4 (Tarde), 5 (Noche), 8 (Nocturno)], talaltra a farsi tutt’uno con gli stessi [Tavola 2 (Segadores, Cuervo, Tenaja)], a divenire essi stessi parte di un evento macchinale, destinato ad alienare le loro persone e le loro vite.
E che, per questa ragione, neanche nell’ora della pausa riescono a darsi reciproca consolazione [Tavola 9 (Siesta)], ove i loro corpi, sebbene ancora giovani e sensuali, rimangono drasticamente divisi.
La poetica di Ortega, dunque – al di là di qualsiasi concessione ad un nostalgismo pure ricorrente in taluni autori del suo tempo – vive della lucida consapevolezza che l’arte non può essere evasione o intrattenimento ma militanza a servizio dei valori costitutivi dell’umanesimo e, fra questi, la fratellanza universale e la giustizia sociale. E Ortega, forse più che lo stesso Picasso – che con Guernica aveva inaugurato la corrente di pensiero della pittura civile – ne è stato l’interprete più coerente: dal ciclo dei Segadores fino ai murales di Bosco!
Sembra volerci dire – con le parole di John Keats – che «verità è bellezza, bellezza è verità: solo questo su questa terra sappiamo. Ed è quanto basta!»