Ancora una tappa del viaggio nelle tradizioni del Cilento: le lavandaie al fiume
Il mestiere della casalinga era un tempo sicuramente più difficoltoso rispetto ad oggi. Ad esempio, lavare il bucato non era certo un’azione semplice, per le donne.
Per prima cosa, di buon’ora, le donne dovevano recarsi al corso d’acqua più vicino: questo perché fosse più facile ‘prendere’ il posto migliore per il lavaggio. Una volta arrivate, le prime si mettevano alla parte più alta, in modo da avere a sé l’acqua più pulita; per stendere i panni, poi, si sceglieva ovviamente il posto più esposto al sole e più ventilato. Quanto al lavaggio vero e proprio, la biancheria veniva insaponata con del sapone rigorosamente fatto in casa e sciacquata una prima volta, quindi insaponata nuovamente. Successivamente, veniva riportata a casa conducendola sul capo con un grosso cesto, e messa poi in un contenitore di creta (“scuorcio”) che alla base aveva uno scolatoio. Allora, sui panni che si mettevano a “scolare”, si versava della cenere (con cui si lavavano anche le stoviglie), preferibilmente del legno di fico, e dell’acqua bollente: in questo composto che si riteneva avesse un ottimo potere candeggiante, il bucato era destinato a rimanere per circa dieci ore. Rimesso poi il bucato nel cesto, questo veniva portato nuovamente al fiume per essere risciacquato. Sicuramente, però, le condizioni climatiche non erano sempre le più adatte per portare a termine il lavaggio, e per questo quando il tempo non permetteva l’asciugamento, il bucato veniva fatto asciugare in casa col cosiddetto “asciugapanni”, un cesto a forma di campana su cui esso, ben distribuito, prendeva più aria possibile, e così si asciugava. Talvolta, tra l’altro, quando il clima era particolarmente ostile, ci si metteva anche una particolare urgenza di asciugare i propri capi poiché un abito, purtroppo, costituiva l’unico disponibile nel proprio ‘armadio personale’. In tal caso, sotto all’asciugapanni veniva posto anche un braciere.