Ancora un salto nel passato della tradizione cilentana: la raccolta delle olive
A Vibonati durante il mese di ottobre le donne, comandate da un “padrone”, si preoccupavano di ripulire il terreno per quella che è stata da sempre una delle più importanti attività del posto: la raccolta delle olive. Non molto tempo fa i pochi possidenti terrieri, che quindi avevano in proprietà grossi lotti di terra, fruttavano una vasta ricchezza col commercio del loro olio. Il terreno veniva appunto pulito da erbacce e sterpaglie dalle donne (“scarvare”, in dialetto), mentre si aspettava che le olive cadute giungessero al loro massimo grado di maturazione sotto l’azione del vento dei mesi di novembre, dicembre e gennaio, e talvolta anche oltre. Raccolte poi ad una ad una, le olive venivano messe in un paniere, “panaru”, e quindi nel “cuofano”, ovvero in un cesto più grande tale da poterne trasportare il più possibile in testa. Non vi era però, allora, l’ausilio delle reti utilizzate oggigiorno per poterle raccogliere con maggiore facilità. Il raccolto poi, veniva deposto in un locale del padrone, e come quantità minima arrivava a comporre quattro-cinque tomoli, i quali corrispondevano a una “macina”. Successivamente si portavano le macine a frantumare nei frantoi, che a Vibonati erano sei o sette (dato che l’attività della produzione dell’olio era molto redditizia); le olive venivano qui scaricate in una grande vasca di pietra dove le “mole” (enormi ruote di pietra) venivano fatte girare da un torchio tirato da un asino, – che il più delle volte era sostituito dalle braccia dell’uomo – per ridurle in pasta. La pasta delle olive veniva quindi inserita nelle “fiscole”, che messe una sopra l’altra erano pressate sotto l’azione di un torchio di legno detto “vocia vocia”, sempre girato con paletti di legno dalle braccia dell’uomo. L’olio che usciva cadeva in un grande tino pieno d’acqua da cui veniva raccolto con un piatto di ferro zincato detto “sassa”, grazie alla mano del più esperto. Questo momento della lavorazione veniva chiamato “crescita dell’olio” ed era molto importante e delicato, poiché consisteva nel separare l’olio dall’acqua. In genere una macina di olive fruttava quattro o cinque “staia” (uno staio equivale a dieci litri), che venivano divisi nel rapporto di 2/3 tra padrone e lavoratori, e di 1/3 tra le persone che avevano raccolto le olive. Come anticipato, la raccolta delle olive era un lavoro prevalentemente femminile: alle donne toccava spesso recarsi nei terreni in condizioni abbastanza disagevoli, ad esempio sotto l’acqua sferzante, o magari in posti molto lontani da casa, ed il loro consueto pranzo quotidiano consisteva in un pezzo di pane con sottaceti, acciughe salate, un pomodoro. Quanto alle caratteristiche dell’olio, Vibonati ha sempre prodotto un olio dal sapore abbastanza leggero e per questo consigliato anche per l’alimentazione infantile. Esso è stato indubbiamente un prodotto trainante per l’economia locale in quanto gli uliveti sono stati sempre tanti da non bastare addirittura le donne del paese, per la manodopera necessaria al suo lavoro. Per questo motivo era frequente che venissero a lavorare nei terreni anche donne provenienti da Caselle in Pittari, Casaletto Spartano, Tortorella. Quando queste venivano a prestare la loro manodopera, però, spesso erano accompagnate da tutta la famiglia: ciò costituiva sicuramente un motivo di allegria per tutta la comunità vibonatese, tanto che nei locali che ospitavano le donne con le rispettive famiglie, in tali occasioni si ballava la tarantella accompagnata dall’organetto.