Viaggio nel Cilento: alla scoperta del borgo di Melito

“Picciol paesetto ma vago”: così Francesco Antonio Ventimiglia descriveva Melito di Prignano Cilento

Di Redazione Infocilento

“Picciol paesetto ma vago”: così Francesco Antonio Ventimiglia descriveva Melito di Prignano Cilento

“Picciol paesetto ma vago” così il nobile Francesco Antonio Ventimiglia, vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, ebbe a dire di Melito nel suo volume “Il Cilento illustrato”, riassumendo in un breve rigo e con un solo termine centinaia di descrizioni altrimenti possibili ma mai altrettanto appropriate per un luogo così caratterizzato, poiché in quel “vago” di leopardiana memoria, c’è un’intera sezione della letteratura romantica ad esso dedicata.
Vago come indefinito, vago come incantato, vago come può essere un sogno, i cui contorni si disperdono e si sfaldano tra i silenziosi e stretti vicoli di un borgo che ha da sempre mantenuto una sua caratteristica individualità, nonostante la dipendenza amministrativa da Prignano, di cui è una delle frazioni più antiche.
Probabilmente fondato dagli abitanti delle località marittime che fuggivano dalle incursioni dei Saraceni nei secoli IX e X d.C., oppure frutto di successive espansioni di un primario insediamento monastico, Casalis Maleti, il casale dei meleti, come veniva originariamente chiamato, possiede molte particolarità e una leggenda che vale la pena di raccontare e che coinvolge una delle componenti architettoniche di maggiore interesse del luogo.

Ci riferiamo a Torre Volpe, così denominata dal nome della famiglia di cui fu proprietà una volta trasformata in abitazione, ne è testimone lo stemma presente sulla facciata principale, ma risalente probabilmente all’XI secolo, e sorta a difesa del villaggio contro i terribili assedi saraceni cui è legata da un’invenzione tanto furba quanto l’animale che per caso e per necessità finì poi per esserne simbolo e portavoce.


Torre Volpe, torre ingegnosa, poiché si narra che durante gli assedi vi fosse montata sopra una ruota munita di catene alle cui estremità venivano posizionati grandi massi e pietre che con la rotazione del marchingegno finivano con l’essere gettati a grande velocità contro i nemici.
Una trovata che valse al paesetto la resistenza alla dominazione e la fierezza di una difesa strenua dei propri valori e del proprio apparato sociale, in nome di quell’autonomia che sempre ne rappresentò un possesso e un’aspirazione.

 

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