Ieri sera la messa in scena a Valle Cilento
Grande successo al Festival “Segreti d’autore”, a cura di Ruggero Cappuccio, per la prima nazionale del monologo “L’agnello di Dio” di e con Angelo Colosimo. Ieri sera, nello scenario unico di Palazzo Coppola a Valle Cilento, è andato in scena il monologo scritto e interpretato da Angelo Colosimo, per la regia di Roberto Turchetta. Come nella prima opera, “Bestie rare”, presentata nella scorsa edizione del Festival (a Ortodonico, il 2 agosto), l’atto-autore Colosimo porta in scena i fantasmi dell’immaginario, le ossessioni di anime “deportate” e “sradicate”, con una performance di grande impatto emotivo, ma al contempo ricca di sapido umorismo. La scena sembra evocare, con allusioni oniriche (il telone color pastello) e concrete (una parrucca, un quadro, una radio), il luogo di un rito dissacrante, dove la litania della preghiera iniziale si consuma nelle allucinate e frante parole di una “tragedia minimale”. Nel segno di Annibale Ruccello (di cui a Settembre ricorre il trentennale della scomparsa), il monologo mette in scena il delirio di una donna “in ostaggio”, proprio come quelle di Ruccello, così sensibile nel rappresentare sulla scena le infinite sfumature dell’animo femminile. Come nelle “piccole tragedie minimali” (che restano un “unicum” nella drammaturgia degli anni Ottanta), si rappresenta qui il “piccolo delirio manicomiale” di una donna che si identifica con la Madonna e con Marilyn Monroe. Anche qui, la confessione, come in “Maria di Carmela” di Ruccello, oscilla tra preghiera e imprecazione, tra amore e morte, sfumando in una “ilarotragedia”, dove si contaminano umorismo e riflessione. Come nel primo testo di Colosimo, il recupero del dialetto calabrese coincide con la ricerca di un avantesto mitico continuamente evocato e “ri-cercato” (la famiglia, il paese, il convento). Gravida di schemi anaforici tipici dello stile formulaico del “cunto”, la lingua sembra esibire, con gli intarsi dal forte sapore idiomatico, una fortissima sonorità. La lingua viscerale del dialetto calabrese si presenta dunque come impastata di parole che appaiono emanazioni verbali di un inconfondibile “humus” culturale, dal quale la scrittura di Colosimo trae ispirazioni e sonorità, protesa com’è nella ricerca di un linguaggio originario, che si nutre della memoria, come da un avantesto mitico e primigenio, così come della ricerca del lontano e del rimosso.