Considerazioni sull’importanza dell’Università per migliorare la competitività del territorio, tra obsolescenza delle competenze, obsolescenza delle prospettive e spin-off accademici.
Nella mattinata di sabato, nell’ex Convitto dei Domenicani di Vallo della Lucania, si è tenuto un incontro interessante su turismo e filiera agroalimentare. Ci sono andato con piacere e mi sono anche messo in prima fila con tanto di blocco per gli appunti e con le varie cianfrusaglie che mi porto dietro. Si stava bene, le poltrone erano comode, il tavolino abbastanza solido e con le finestre aperte si creava un piacevolissimo circolo d’aria che, vista l’ora, risultava essere tutt’altro che inopportuno ai molti presenti. Sabato scorso, in soldoni, la Banca del Cilento, di Sassano e del Vallo di Diano e della Lucania, attraverso la sua Fondazione “Grande Lucania” ha presentato un Osservatorio che fino a tutto settembre raccoglierà dati sul territorio per partire, in una fase successiva, all’elaborazione di misure tese allo sviluppo nei settori turistico e agroalimentare; una iniziativa interessante patrocinata dall’Ente Parco che punta a muoversi con il progetto Public Hub di Sistema Cilento e dei Comuni di Vallo, Novi, Moio e Cannalonga. Mi ha ispirato molto la partecipazione, all’incontro di sabato e alle attività dell’Osservatorio, di due docenti del Dipartimento di Scienze Aziendali, Management & Innovation Systems dell’Università di Salerno, i proff. Vincenzo Loia e Roberto Parente, due figure dall’alto profilo che fanno ben sperare sulla qualità dell’operazione. Interessante anche l’indirizzo del Direttore della Banca Solimeno il quale, dopo aver parlato della sostanziale assenza nel nostro territorio di una base produttiva nel settore agroalimentare, sottolineava a margine dell’incontro, come fosse necessario creare le condizioni per fare impresa e per attrarre investimenti, puntando al coinvolgimento più ampio possibile della struttura universitaria salernitana. Presente all’incontro anche il Rettore dell’Università di Salerno il quale, sollecitato e sostenuto dagli altri attori presenti, valuterà Vallo come sede di corsi di alta formazione e di corsi post laurea. Tutto sommato un’iniziativa a cui guardare con interesse per gli sviluppi successivi anche se, almeno in questa sede, non ho sentito parlare di due fattori chiave per lo sviluppo dei settori turistico e agroalimentare, ossia i presidi Unesco di cui ci fregiamo che riconoscono e spingono ad una tutela e ad una valorizzazione del nostro rapporto con l’ambiente circostante in quanto “paesaggio culturale” di rilevanza mondiale e, come se non bastasse, trovando poi un ulteriore suggello nell’altro grande riconoscimento Unesco della Dieta mediterranea. Queste nostre matrici identitarie, riconosciute e tutelare a livello mondiale, costituiscono dei punti di forza imprescindibili nei disegni e nei processi di sviluppo del territorio.Naturalmente verso la fine dell’incontro ho alzato timidamente il ditino all’attenzione del direttore Solimeno che è stato molto ben disponibile a concedermi un microfono e, al contrario di quello che ha pensato Carmela Santi, moderatrice del convegno che ha introdotto il mio intervento, non avevo una domanda da porre bensì mi stavo di fatto imbucando come relatore, esponendo alcune considerazioni e avanzando un paio di proposte.
- Università e formazione: organizzare corsi di alta formazione e corsi post laurea può essere una cosa importante, ma solo se realmente utili e funzionali allo sviluppo del territorio. Questo è un aspetto importante perché si fa formazione quando una qualsiasi organizzazione vuole raggiungere un determinato obiettivo ma manca delle competenze necessarie; quindi si vanno a soddisfare dei fabbisogni formativi, creando conoscenze e competenze utili e necessarie allo svolgimento di determinati compiti e di determinate funzioni. Il dubbio è: in che modo la soddisfazione di questi fabbisogni formativi si inserisce nei processi di sviluppo del territorio? Il rischio è che si facciano degli interventi di formazione bellissimi, ma formando 10-20-30 ragazzi la cui professionalità non troverà corrispondenza in una domanda del nostro territorio. Quindi dei corsi di formazione vanno più che bene se funzionali allo sviluppo del territorio, ma è opportuno preliminarmente analizzare ed individuare quali sono le competenze necessarie a questi processi di sviluppo e ciò perché dietro questi corsi di formazione si nasconde l’equivoco che porta a ritenere che tra le cause di mancato sviluppo vi sia la mancanza di (giovani) competenze, quando in realtà il mancato sviluppo è causato dell’obsolescenza delle competenze negli operatori già attivi. Dei corsi di formazione vanno bene se indirizzati anche e soprattutto alla formazione continua della classe dirigente dell’area parco. Ce lo dicono il Dipartimento della Funzione pubblica e il Formez che individuano forti fabbisogni formativi nelle Pubbliche Amministrazioni le quali, a seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione e del nuovo scenario europeo, si sono trovate catapultate in questo nuovo mondo, giustificabilmente e prevedibilmente impreparate a svolgere mansioni utilizzando nuove tecniche, nuove metodologie e nuovi strumenti operativi (originariamente mutuati dalla cultura imprenditoriale) che richiedono una sempre maggiore preparazione. Ciò assume maggior rilievo in un territorio come il nostro in cui non vi è una cultura imprenditoriale, come hanno sottolineato i relatori di questo incontro, e in cui generalmente chi occupa posizioni apicali nelle istituzioni sono persone che bene o male fanno politica o gestiscono la cosa pubblica da quando ancora c’era il Muro di Berlino. Questo è un aspetto cruciale perché, come indica il Centro Europeo per lo sviluppo della Formazione Professionale, l’obsolescenza delle competenze non è solo di tipo economico (ossia riguardanti l’inadeguatezza delle competenze possedute) ma è anche obsolescenza di prospettive, ossia possedere una visione superata del lavoro e dell’ambiente di lavoro, che determina anche una inadeguatezza e arretratezza delle policy, delle forme di governance, e abbassa il livello di efficienza e di efficacia delle azioni poste in campo. Anche questo è digital divide: non solo quello di chi non ha materialmente modo di accedere ai prodotti e ai servizi digitali, ma anche quello culturale di chi non ha gli strumenti intellettuali per partecipare funzionalmente ai processi di sviluppo del territorio e se lo fa rischia di comprometterli. E ciò è chiaramente distruttivo nel momento in cui questa obsolescenza di competenze riguarda chi, occupando posizioni apicali, si trova non solo a partecipare ma a promuovere, a guidare e ad indirizzare questi processi abbassandone di fatto la qualità e smorzandone le possibilità. Questo digital divide culturale si risolve con programmi di formazione continua delle PA, turn over dei ruoli dirigenziali, ricambio generazionale e politiche di open government. Per questo motivo, ad esempio, esiste un Programma Operativo Nazionale “Governance e Capacità Istituzionale” 2014-2020 che punta all’ammodernamento delle Pubbliche Amministrazioni, con una dotazione finanziaria di 600 milioni di euro per le sole regioni in ritardo di sviluppo e ben si potrebbe pensare di realizzare anche interventi attingendo a questo PON. Ma soprattutto l’Università, la Banca, il Parco e il Comune di Vallo dovrebbero indirizzare un settore rilevante delle politiche culturali creando un Centro di Formazione classe dirigentedell’area parco, contribuendo a migliorare la qualità delle P.A. e contribuendo a creare le infrastrutture immateriali per fare innovazione, per fare impresa e per realizzare policy e governance di qualità. Creare un Centro di Formazione classe dirigente sarebbe un vero punto di forza di una Vallo Città dei servizi che vuole riaffermare la propria centralità nel territorio fornendo supporto e formazione alle classi dirigenti del territorio.
- Università e impresa: quando parliamo di Start-up non parliamo di semplici attività imprenditoriali, ma parliamo di attività ad alto contenuto di innovazione. La parola “innovazione” non deve porci in soggezione perché, sebbene richiami alla mente cose dal sapore fantascientifico e dal retrogusto industriale come le scienze informatiche, l’aerospazio, le nanotecnologie e così via discorrendo, in realtà innovazione si può sviluppare anche nel selvaggio Cilento. E in che modo? Puntando non su ambiti che benissimo possono elaborarsi indifferentemente a Boston, a Roma o a Salerno, ma fare ricerca e sviluppo sulle peculiarità rilevanti (e a tratti esclusive) del nostro territorio. Ad esempio infatti, il Premio Nazionale per l’Innovazione, promosso dall’Associazione Italiana degli Incubatori Universitari e delle Business Plan Competition, elaborando delle categorie in cui collocare le Start-up partecipanti, oltre a quella Industrial ne enumera delle altre come Agrifood – Cleantech, ICT – Social Innovation e Life Sciences che trovano nel nostro territorio un contesto privilegiato per fare ricerca e sviluppo. Fare innovazione è importante ma questa non può essere lasciata alle dinamiche spontanee, nell’attesa e nella speranza che a qualcuno gli si accenda una lampadina in testa: l’innovazione non è frutto del caso ma è frutto di lavoro, di ricerca (pubblica e privata) e di politiche e di investimenti che la sostengono. Localizzare la ricerca diventa fondamentale perché è uno di quei fattori che contribuiscono a creare quell’”ecosistema” fecondo alla nascita di start-up. Start-up che saranno a loro volta delle localizzazioni di innovazione che contribuiscono allo sviluppo del territorio. Da questo punto di vista l’Università di Salerno potrebbe fare meglio e di più con interventi maggiormente efficaci: oltre a corsi di alta formazione comunque graditissimi, creare degli Spin-off accademici. Per chi non lo sapesse gli “Spin-off accademici” sono degli organismi di diritto privato (delle società) che hanno come scopo l’utilizzazione imprenditoriale, in contesti innovativi, dei risultati della ricerca. Lo “Spin-off accademico” punta alla patrimonializzazione dei risultati della ricerca universitaria. Il XIII Rapporto Netval (di cui l’ateneo salernitano fa parte) sulla Valorizzazione della Ricerca Pubblica Italiana, premette come l’impatto che hanno i risultati di Enti Pubblici di Ricerca (EPR) non riguarda soltanto la competitività delle imprese ma inducono ad un miglioramento complessivo del territorio in cui sono collocati le università e gli EPR. Pertanto l’Università di Salerno potrebbe e dovrebbe investire sul territorio dell’area parco localizzando ricerca, non come gesto di beneficenza verso un’area arretrata, ma puntando a sfruttare le peculiarità locali e le risorse endogene del territorio, per lo sviluppo dell’innovazione e la creazione di cluster produttivi dall’alto contenuto tecnologico. Perché non creare una sorta di parco scientifico e tecnologico dell’ambiente