Il fusillo di Felitto è un piatto tipico della tradizione cilentana, di Felitto in particolare. La sua storia è legata ad un’antica leggenda del ‘700. La storia raccontata da Giuseppe Pagnotto.
Sbarcato con settecento Turchi alla marina di Agropoli, il pirata Barbarossa, attraversato il varco di Vesole, era piombato improvvisamente su Felitto ed i Felittesi avevano avuto appena il tempo di serrare le porte: Pazzano ed il Casale erano stati distrutti senza che gli abitanti riuscissero a mettersi in salvo dentro le mura come invece era riuscito agli abitanti del casale di Barbagiano.
Dall’alto della porta nord gli abitanti inorriditi avevano visto il fumo e le fiamme altissime levarsi dagli incendi di Pazzano e del Casale, la pazza corsa delle donne verso il fiume, il salto di molte di esse dal ponte pur di non cadere nelle mani dei Turchi; avevano udito anche le grida di disperazione, di tortura e di di morte dei prigionieri; avevano visto impalare tutti i maschi della famiglia Allegro, la prima del Casale.
Era il quarantesimo giorno di assedio ed i Felittesi erano ormai allo stremo: il grano era terminato da tempo e anche se ce ne fosse stato ancora sarebbe stato impossibile cuocere il pane perché ogni pezzo di legno, ogni fascina, ogni stecco era stato bruciato per far bollire l’acqua e l’olio da gettare sui nemici: per questo si bruciavano le travi e le astelle dei solai, i cannicciati.
Si diroccavano le case per prenderne le pietre da precipitare sugli assalitori, le corde degli archi e delle balestre, consumate da tempo erano state sostituite dai capelli intrecciati delle donne. Anche il latte era stato sottratto ai neonati per farne formaggio, i pochi pozzi dentro le mura erano da tempo svuotati e solo con terribili rischi, durante le notti senza luna, i più coraggiosi, strisciando come serpi dalla piccola porta del Calaturo, riuscivano ad arrivare giù, giù, fino al fiume a far rifornimento d’acqua.
Anche il Barbarossa era però in difficoltà: Felitto non cedeva,l’ultimo assalto gli era costato trentadue uomini e tra i migliori, tutti gli abitanti dei dintorni erano scappati facendo terra bruciata, per miglia e miglia non si trovava un sacco di grano, una gallina, una capra; si erano già manifestati tra i suoi i primi casi di peste e poi era in forte apprensione per la sua flotta sotto Agropoli, nella baia di San Marco, troppo, troppo vicina alle terre dei conti di Capaccio.
– In dispensa ci sono rimaste quattro giummelle di farina, otto uova, una scorza di formaggio di pecora – donna Isolina Alibrandi si avvicinò al marito, don Maclodio Arrivabene, feudatario di Felitto, che ormai quasi non si muoveva più dal punto più alto del castello per tener d’occhio ogni movimento del nemico.
-Fai venire la cuoca- rispose don Maclodio senza voltarsi.
Da più di una settimana si era convinto che non poteva resistere più a lungo, l’ultimo assalto dei Turchi dalla parte della rupe di S.Nicola era stato terribile ed era stato respinto con la forza della disperazione, però erano andati perduti i felittesi più forti e coraggiosi, rimasti uccisi o gravemente feriti.
Solo un’astuzia poteva salvarli, don Maclodio del resto aveva partecipato a diversi assedi, tra gli assedianti e tra gli assediati ,era convinto che anche il Barbarossa, lontano da più di un mese dalle sue basi e con terra bruciata attorno per miglia e miglia, dovesse trovarsi a mal partito.
-Fate un impasto con le uova e la farina, ménatelo bene- cominciò a dire don Maclodio sempre senza voltarsi alla moglie e alla cuoca esterrefatte,convinte che al signore la tensione ed il sonno arretrato per il lungo assedio avessero scombussolato il cervello.
-Riducete l’impasto a tocchetti,lavorate bene i tocchetti con le mani e ricavatene dei funicelli di pasta e poi – don Maclodio cavò dalle tasche del farsetto, due ferretti di ferro dolce a sezione quadrata che la mattina si era fatti fare da mastro Michele il fabbro – sulla spianata di legno,li lavorerete con questi, così –
Don Maclodio, poggiò le mani a palme aperte sul parapetto di pietra- in modo che nel funicello per quanto é lungo si formi un canale e non si attacchi al ferro quando l’andrete a sfilare. Badate che devono essere lunghi un palmo e mezzo e doppi non meno dell’intestino di un pollastro!
Li stenderete poi su un graticcio e li farete asciugare per due giorni –
Le donne s’allontanarono convinte del tutto che il loro rispettivamente marito e padrone avesse dato di volta il cervello non pensando comunque nemmeno lontanamente a disubbidire.
Don Maclodio però non era pazzo, sapeva che le guerre e gli assedi si vincevano soprattutto per fame, sapeva che la fame e lo scoramento crescevano soprattutto alla vista o alla supposizione della ricchezza del nemico. Una volta, all’assedio di Capua,dopo un mese, quando erano convinti che gli assediati fossero ormai allo stremo, in attesa da un momento all’altro di veder comparire sulle mura il drappo bianco ed aprirsi le porte della città, ormai certi di potersi ripagare con banchetti, razzie ed altro dei lunghissimi giorni di fame,pidocchi e dissenteria, si erano visti piovere addosso,non olio e acqua bollente, ma forme di formaggio,tanto formaggio.
Alla gioia immediata del cibo,era successo il cupo scoramento della sconfitta: i Capuani avevano tanto formaggio da usarne le forme come proiettili,dunque avevano anche grano;olio,vino,avrebbero resistito per mesi e mesi. Avevano tolto l’assedio, solo tempo dopo avevano saputo che quel formaggio i Capuani ormai allo stremo l’avevano fatto con il latte delle donne per un’ultima, disperata e, per fortuna loro, riuscita mossa di difesa! Doveva tentare qualcosa di simile,doveva dare al Barbarossa l’impressione che i Felittesi avessero cibo per resistere ancora molto a lungo, nelle mura non c’era però una goccia di latte e allora si ricordò di tutti gli strani piatti di fortuna che aveva conosciuto durante i numerosi assedi e guerre cui aveva partecipato e pensò di prepararne uno, il più ricco e corposo che si potesse con quella poca roba che aveva in dispensa. Era del resto,cosa stranissima per un feudatario,un ottimo cuoco dilettante e,facendo tesoro delle conoscenze culinarie che aveva appreso nei diversi posti in cui le guerre,le cacce e le scorribande l’avevano portato,non era raro che trascorresse lunghe giornate invernali nella grande cucina del castello a provare piatti che aveva conosciuto in altri posti aggiungendovi magari delle varianti personali o a sperimentarne di sua assoluta invenzione.
Con una lughissima parabola, il paniere sapientemente involto in un panno di lino, scagliato dalla balestra di Mattia della Farneta, il miglior balestriere di Felitto, planò proprio davanti alla tenda del Barbarossa, giù, giù all’Isca tra il fiume ed il torrente.
La notte seguente le sentinelle videro come al solito accendersi i bivacchi nel campo dei Turchi ma, all’alba, al diradarsi della caligine azzurrognola, l’Isca apparve deserta, solo qualche debole pennacchio di fumo dei bivacchi ormai quasi tutti spenti,il Barbarossa aveva tolto l’assedio, ingannato dalla beffa dei Felittesi che gli avevano scagliato sul campo un paniere di fusilli facendogli credere di avere i magazzini pieni di chissà ancora quale bendidio,oppure, più verosimilmente perché preoccupato dalle notizie che aveva avuto sulle ultime mosse dei conti di Capaccio.
E così, secondo quanto sono riuscito a capire a fatica scorrendo moltissime volte uno sbiadtissimo manoscritto in tardo latino trovato,mi guardo bene dal dire dove e quando,pare siano nati i “fusilli” di Felitto.
Peccato che nel manoscritto si dica niente, e non poteva essere diversamente, del condimento canonico dei fusilli, ragù di castrato o,p er gli stomaci più delicati, misto di castrato e vitello: non dispero però di scovare da qualche parte un qualche altro manoscritto,magari più recente,che chiarisca anche questo mistero.
Solo per dovere di cronista coscienzioso, devo ancora riferire che, in un post scriptum del mio manoscritto, é detto che il Barbarossa, tolto l’assedio a Felitto, invece di dirigersi verso la marina, s’internò alla ricerca di Campora, paese, gli avevano riferito, di ricchi pastori, e non trovandola perché sperduta tra foltissimi boschi, invertì la marcia sperando di sorprendere Albanella: non scovò neppure Albanella perché tutta la zona, per moltissimi giorni, pare sia stata immersa in una foltissima nebbia, tanto fitta da tagliarsi quasi col coltello.
Alla fine il post scrptum afferma addirittura che il Barbarossa,dopo averli fatti assaggiare ai suoi assaggiatori ufficiali, abbia mangiato e molto gustato tutti i fusilli speditigli da don Maclodio e qui il valore storico del manoscritto, a mio parere, scade di molto per cui, per cautela, titolo questa rigorosa elaborazione del mio manoscritto “leggenda del fusillo di Felitto” e non “storia del fusillo di Felitto” come, con lo sconsiderato entusiasmo del ricercatore neofita,avevo deciso all’inizio della mia lettura.